Vivere ai tempi di Internet/4. Internet antropologicamente (ultima parte)

di Ornella Rota

 

Paolo Favero, docente di antropologia visiva all'Università di Lisbona ISCTE/IUL (immagine da https://www.facebook.com/paulinrivarolo)A volte la storia rompe il filo della continuità, e lo sgomento è non riuscire proprio a intuire come potrebbe mai essere il dopo. Quando scoprimmo, ad esempio, che la forma scritta stava soppiantando la tradizione orale. O che era la Terra a girare intorno al Sole.  O che le donne potevano essere/avere/valere esattamente quanto gli uomini. O che all’origine delle pestilenze non c’erano castighi divini bensì la mancanza di igiene.

Ultimo spartiacque (in ordine di tempo) nel XX secolo, in occidente: Internet. Nulla sarà più come prima. Come sarà l’uomo Internet?  Riusciremo finalmente a percepire che la nostra vita è nelle nostre mani, riusciremo finalmente ad appropriarcene? La nostra memoria sarà capace di integrarsi con quella immagazzinata nel web? E ancora: quali rapporti fra vita reale e virtuale? Chi percepiremo come “straniero” e perché? Di più: esisterà ancora il concetto di straniero, oppure la nostra identità facendosi sempre meno fragile, avrà sempre meno bisogno di essere tutelata (con le relative inevitabili strumentalizzazioni)?   

Del nuovo mondo siamo talmente agli inizi che è difficile persino formulare domande.

 

“Una considerazione emerge fin d’ora, ed è che la possibilità di intervento di ognuno, e di tutti, sarà completamente diversa da quella che è oggi. Con i nuovi mezzi di comunicazione di massa, ad esempio, le tecnologie digitali permettono di interagire; finora potevamo invece essere solamente spettatori”, dice Paolo Favero, docente di antropologia visiva all’università di Lisbona ISCTE/IUL, cittadino italiano e svedese, un curriculum prestigiosissimo che va dalle ricerche sul campo in India all’insegnamento all’università di Londra.

Per intenderci, la differenza fra l’Enciclopedia Britannica e Wikipedia…

“Non a caso c’è tutta una campagna contro l’utilizzo di Wikipedia (dove è peraltro molto raro trovare un errore), perché è un sapere non istituzionalizzato, che si struttura in rapporti non più verticali come succedeva in passato, bensì orizzontali. Anche dal punto di vista strettamente economico ci sono conseguenze: avendo la possibilità di attingere a una serie alternativa di riferimenti e di dati, non si è più obbligati a spendere centinaia o migliaia di euro per comprare un’enciclopedia cartacea”

Wikipedia come un punto importante di una progressiva, generale, riscoperta del gusto di condividere? Sto pensando soprattutto ai net work, ai documentari interattivi, all’ininterrotto scambio di materiali visivi e sonori.

“Tutto questo costituisce una smentita clamorosa e definitiva dei soliti luoghi comuni per cui la rete finisce per isolare, per farci diventare degli automi, delle specie di monadi. Alla prova dei fatti succede proprio il contrario. Come dice il sociologo inglese Leadbeater ,’You are what you share’, al giorno d’oggi la condivisione diventa essenziale per esistere.

La possibilità, finora inedita, di filmare e di filmarci l’un l’altro, se da un lato può condizionarci la vita dall’altro lato permette, come mai prima d’ora, di denunciare ingiustizie, renderle visibili. La grande domanda rimane però sul se i network, fondamentali per organizzare proteste e sovente far cadere regimi, saranno altrettanto importanti per creare un’alternativa politica stabile. Intendo: questa straordinaria possibilità di copresenza virtuale a manifestazioni che si svolgono in città diverse e lontane potrà prima o poi servire anche per costruire una linea di continuità politica reale?”

Esistono già comunità nate on line e diventate effettive.

“Certamente, alcuni spazi ibridi di progetti politici esistono e altri sono in corso d’opera. Ma per sapere con quali risultati, bisognerà aspettare un po’ di tempo”.

Chi ha paura di Internet?

“Indipendentemente dalle opzioni diciamo ideologiche, diffidano della Rete tutti quei settori e persone che sono rimaste ancorate al potere verticale, al sapere consolidato, alla politica intesa come privilegio, che non sono in condizioni di ripensare se stesse né tantomeno le proprie competenze.

In definitiva, hanno paura di internet quelle parti di società che di fronte ai cambiamenti vanno in crisi. Che poi l’Italia sia “un Paese per vecchi” è così vero da essere diventato quasi una battuta: il fatto è che però il fattore anagrafico non c’entra per niente. Il vero problema è il generalizzato rifiuto di sperimentare nuove possibilità e nuove strade, di assumersi responsabilità in prima persona, di mettere in discussione il contesto nel quale ci siamo abituati (o rassegnati) a vivere. Un atteggiamento che -basta guardarci intorno per constatarlo- è assolutamente trasversale alle diverse età.

Anche a livello internazionale, è sostanzialmente questa la mentalità che ispira alcune delle grandi battaglie contro Internet. Secondo me saranno però proprio le nuove tecnologie a permetterci di creare un soggetto politico innovatore che abbia voglia e capacità di cambiamento” .

Oggi si parla di una sorta di accelerazione generale, che peraltro corrisponde al ritmo di internet e a sua volta accelera internet. Una delle maggiori caratteristiche della nostra epoca è la rapidità?

“Non lo so se si tratti proprio di rapidità. Certo è la copresenza, la simultaneità, la possibilità che categorie di persone impensabilmente diverse vivano dei momenti importanti contemporaneamente, e insieme, stiano essi succedendo a Wall Street o a Damasco o a Rangoon o a Tomboctou o dovunque. Non c’è mai stato niente del genere in passato.

Il problema è però, non dimentichiamolo, che l’utilizzo della Rete non riguarda tutto il mondo. Ci sono limitazioni, ostacoli e preclusioni proprio all’origine, ad esempio la conoscenza delle lingue, l’accesso all’elettricità, lo squilibrio tra gli utenti maschi e femmine, giovani e anziani, nonché questioni di geopolitica più vaste e anche specifiche dei diversi Paesi. Tra l’altro, la lingua dominante essendo l’inglese, e le nuove tecnologie provenendo dall’occidente, rischiamo di pensare che la linea di demarcazione sia tra noi e il resto del mondo. Il che non è assolutamente vero. Basterebbe infatti tracciare una mappa dell’accesso al digitale a livello globale per constatare che già si è formata, ed è destinata a viepiù crescere, una nuova “classe media” di livello transnazionale, del tutto indipendente da nazionalità e residenza, accomunata e caratterizzata dalla capacità di utilizzare le nuove tecnologie”.

Oggi stiamo anche rendendoci conto che crescita e sviluppo non possono continuare all’infinito. Che arrivano anche momenti di decrescita. Come pensi inciderà la crisi economica sulle nuove tecnologie?  

“Prima di tutto dovremmo ripensarle mirando a ridurne i costi pur ottenendo risultati di pari qualità.  Ad esempio, non deve necessariamente essere di grandissimo livello un film capace di creare un’interazione creativa con gli spettatori: esistono già progetti meravigliosi in questo senso, girati con materiali a costi decisamente contenuti.

Potrebbe anche verificarsi un altro sconvolgimento: l’eventuale distribuzione di internet via piattaforme satellitari che, rendendoci completamente indipendenti dai cavi, costituirebbe un’alternativa alle linee fisse. Il governo indiano è stato antesignano di quest’ipotesi, che comunque rimane di difficile attuazione; per immaginare le resistenze basti ricordare, ormai parecchi anni fa, l’unanime levata di scudi che gli Stati nazione fecero di fronte alla constatazione, da parte dell’UE, che all’interno dello spazio europeo le telefonate dovrebbero avere medesimi costi”.

Nell’era Internet viaggeremo di più o di meno?

“Penso più o meno come oggi, visto che continueremo a muoverci sia per necessità che per piacere. Forse diminuiranno i viaggi per lavoro. Potendo fare lezione in Skype e discutere in videoconferenza per quale ragione dovresti andare a Parigi o a Città del Capo o a Mosca o a Buenos Aires? Ti organizzi con i vari fusi orari e convochi la riunione a Mondovì. Però i congressi e gli appuntamenti internazionali fra scienziati, intellettuali, operatori economici e altre categorie continueranno a esserci, anche perché i tempi morti (a tavola, o di fronte a una tazza di caffè, o durante una visita a un museo o alla città o altro del genere) sono, per promuovere nuove iniziative e organizzare collaborazioni, potenzialmente molto più interessanti, e vivi, di quelli programmati per le conversazioni pubbliche”.

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