di Paolo Marcacci
Chissà com’è che certi ricordi rimangono conficcati come schegge in qualche parte della memoria, tanto che per riportarli alla luce basta un bicchiere di… Cos’era? Ah già, vermouth. No, non gli è servito berlo: è bastato che in un bar, ieri, qualcuno nominasse la bevanda, con dicitura un po’ desueta, peraltro. Evidentemente ognuno ha la sua madeleine e per Gabriele consiste in quella specie di vino aromatico, lievemente colorato che, nei bar che ancora ne espongono qualche bottiglia, è una delle poche cose rimaste identiche a Roma com’era la città quando lo accolse, una quarantina di anni fa, qualcosa più, qualcosa meno: per prudenza lascia i contorni sfumati, nel parlarne, un po’ perché è così che la realtà si abbellisce a distanza di tempo e un po’ perché la vista gli si annebbiò per davvero, quando gli toccò mandar giù quel bicchiere.
Gli occhiali da studente sul viso imberbe, un’eco di provincia abruzzese nella parlata forbita (cui mai la cadenza romana è riuscita a sovrapporsi del tutto): se c’era un tetto sotto il quale ripararsi non poteva che essere quello del PCI, allora: il partito era mamma, ombrello, casa, scuola per chi se ne lasciava abbracciare: un abbraccio tanto caldo quanto soffocante, a seconda della piega che hanno preso le vite, le idee e i compromessi di chi lo racconta.
Fatto sta che gli toccò andare a distribuire “L’Unità” in coppia con Mario, lo chiameremo così, baffi col risvolto, alla maniera dei socialisti ottocenteschi e bicipiti forgiati dalla fonderia dove lavorava, trattenuti a stento dalla maglia da lavoro infilata dentro la salopette striata dalla fuliggine dell’altoforno.
Un paio di occhiali timidi sull’embrione dell’intellettuale, del professore e del preside che Gabriele sarebbe diventato, accanto ai bicipiti di Mario, il militante operaio dalla pelle rosolata: quale migliore “spot” (vocabolo allora sconosciuto) per rendere il paradigma di quali fossero, all’epoca, le due anime del partito? Anzi: di cosa fosse “quel” partito e del senso che aveva spendersi per la sua causa, o avversarla con fierezza se non addirittura con violenza, per chi stava dall’altra parte.
Le modalità del rito con cui Gabriele ricevette il suo laico battesimo le decise Mario, ci mancherebbe:
“Du’ bicchieri de vermutte!”.
Senza neanche sondare l’eventuale gradimento del giovane compagno; del resto chi avrebbe osato rifiutare? Gabriele un po’ per l’emozione e un po’ pure per l’orgoglio di essere entrato a far parte di quel grande ingranaggio politico bevve pure in fretta, fingendo indifferenza. Forse, ma sono cose di cui ci si rende conto sempre dopo, fu quello il suo passaggio della linea d’ombra: un bicchiere di vermouth che gli fece sentire le orecchie bollenti e pulsare le tempie, oltre ad impastargli le parole che per una mezzora buona gli uscirono a stento, sotto lo sguardo divertito di Mario.
Quel pezzo di Roma, dove oggi il traffico si congestiona nelle ore di punta e dove il polmone di Pineta Sacchetti, privilegio dei residenti, smaltisce a stento i fumi degli Euro quattro, cinque e sei, non era ancora neppure Roma o, al massimo, lo era alla lontana. Tutto era un po’ più piccolo, tranne i sogni, le prospettive, le speranze. Persino le gru il cui respiro ribolliva in lontananza facevano pensare ancora più alla sacralità del lavoro che all’ingordigia dei palazzinari, che nel frattempo avevano già stravolto la città, come da piano (poco) regolatore.
Gabriele è rimasto ad abitare lì nei pressi, poco distante, anche se non saprebbe indicare esattamente distante da dove: per quanto si sforzi di ricordare, non gli riesce di individuare il posto dove Mario gli offrì quel bicchiere. Certo la cosa più probabile è che a distanza di quarant’anni, sempre con quel qualcosa in più o in meno, un baretto di quartiere sia scomparso, sostituito da chissà quale insegna. Ma è anche Roma che ha smarrito se stessa fino a non ritrovarsi che nei ricordi di chi l’ha vissuta, ancora più nitidi nella mente di chi arrivava da fuori e veniva accolto senza che Roma domandasse nulla in cambio: all’epoca la città poteva permetterselo. E poi se certi luoghi cominciano ad appartenere all’anima, difficilmente gli riesce di specchiarsi nel presente. A che pro, poi? Servirebbe soltanto a misurare il tempo, scappato con l’erba e l’aria buona e i segni che ha lasciato, quasi sempre più dentro che fuori di noi.
Continuare a cercare qualcosa, sia pure un bar dove ti hanno offerto un vermouth che ti ha fatto girare la testa da ragazzo, è il modo migliore per non smarrire noi stessi.
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