di Concetta Di Lunardo & Elena Galifi
Dal 24 febbraio è nelle sale il nuovo film di Roberto Faenza, “Un giorno questo dolore ti sarà utile” presentato a Roma presso la Sala del Cinema alla presenza di Peter Cameron, autore dell’omonimo romanzo. Nella sua apparente semplicità e leggerezza, con l’affascinante bellezza di immagini fotografiche calde e avvolgenti, il film accompagna lo spettatore nel mondo del pensiero più profondo. Una dimensione che inizialmente riguarda il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, dove nulla è disincantato soprattutto per James, il protagonista con una forte e spiccata sensibilità. Il film racconta lo spaesamento di James Sveck, un diciassettenne inquieto e anticonformista, figlio di genitori separati e insoddisfatti che si rifiuta di andare al college per non essere indottrinato, odia l’omologazione ed è alla ricerca della sua identità sullo sfondo di una New York brulicante e alienante. James è visto da tutti come un disadattato, come un “diverso” che va guarito, in realtà è semplicemente un ragazzo con simmetrie-altre, rispetto a chi gli sta intorno.
In questo film c’è tutto, dagli elementi di pedagogia, all’analisi sociologica che riflette sui valori di una società ripiegata su se stessa, dove gli adulti si percepiscono come “persi” nei loro fallimenti e per questo costringono i loro figli a ripercorre schemi che non trovano vie d’uscita destinandoli alla loro stessa fine. E’ l’analisi di una società che sembra alla deriva, ma che al tempo stesso pone spunti di riflessione sulla costruzione di un futuro possibile. È qui che la trasposizione cinematografica, pur senza forzature, si discosta in maniera decisa perfino dal romanzo cui si ispira. Il film, come sostiene Cameron, «non è il clone del romanzo, semplicemente limita la storia all’interno della famiglia di un adolescente che non è “atipico”, ma soltanto un personaggio interessante».
Con il film anche il romanzo diviene un manifesto dei giorni nostri e vanno in scena quei giovani che rifiutano gli stereotipi ed i conseguenti atteggiamenti di omologazione sociale, ingredienti per essere accettati nella società attuale. Nella pellicola la gita a Washington tocca anche la riflessione politica con la critica all’irrazionalità del nazionalismo incalzante ed esasperato. Resta l’incapacità di comunicare come caratterizzazione epocale del mondo globale che riesce persino a trasformare i luoghi antropologici in quei “luoghi non luoghi” teorizzati da Marc Augé. E il fallimento più grande, diviene quella “necessità” di “pagare” chi ti ascolti, che reciti il ruolo di un amico per condividere pensieri, intenti e tempo libero.
La riflessione che Faenza rilancia, non è solo la crisi di una società complessa, ma l’invito a dar fiducia a quei giovani che somigliano tanto a James, a coloro che si indignano davanti all’inaccettabile e alle deviazione dell’innaturale, fino a considerare normale l’assurdo. Circa il ritorno alla vita semplice, film e romanzo riflettono entrambi sul tema di rousseauniana memoria, spingendosi a dubitare dell’illusione di un ritorno al passato, tentazione vista come via di fuga, che nasce naturalmente quando le strettoie della vita diventano difficili da attraversare.
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