di Marco Maresca
Pensava Jerome: “Quale prodigio potrà mai aiutarmi a divenire il castello di sabbia che mi sento in questi anni di vita tra le risacche… Ognuno dei milioni di passanti pare infischiarsene della mia natura e godere di un sottile piacere nel vedere disfarsi quello che le mie mani di infante producono sotto il sole del tramonto. Automodellandomi. Bagnando dove necessario, rifilandomi, spolverandomi. Quante gambe dorate si sono allontanate per paura di rovinare tutto e per non aver capito il perverso piacere della costruzione di un sé… Musica e tramonto, sabbia e indifferenza. Parole che mi ruotano intorno, ma non per incitarmi. E tutt’intorno un mondo perverso che genera acqua e vento per distrarmi, per vanificarmi, per farmi crollare prima ancora di aver finito l’opera iniziata al tramonto tra le risacche e le gambe dorate di passaggio. Potrà qualcuno aiutarmi a portare a compimento il mio destino di castello di sabbia?”
Pensava Jerome: “Invidio l’acqua per il suo stile libero. Per la sua capacità di modellare inconsapevolmente. Di livellare inconsapevolmente. Di uniformare secondo piani di pura fisicità. Senza intervento esterno di pensiero. Senza cura dei passanti, né di colui che i passanti schivano. A milioni. Se l’acqua non esistesse, il mio destino sarebbe meno crudele. E invidio il vento per la sua noncuranza. Per la mancanza di un’idea chiara nel suo disegno esistenziale. Soffia secondo incomprensibili piani di fecondità. Si burla continuamente della mia sete di sapere. Se non esistesse, il mio destino saprebbe persino raccogliersi in preghiera.”
Pensava Jerome, mentre continuava a modellare, a veder rovinare e a ricominciare daccapo. Finché un bambino gli si avvicinò, secchiello alla mano. E dopo essersi chinato al suo fianco cominciò a scavare. Jerome lo guardò appena. Gli bastò. E cominciò a scavare con lui.
Cessò il vento. L’acqua si ritirò.
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