di Alessandro Cantonetti da Beijing
Chi vive all’estero – specialmente per periodi medio lunghi, e in grado direttamente proporzionale alla diversità della cultura ospite da quella di origine – sa che risiedere in un paese diverso da quello in cui si e’ nati e cresciuti e’ un’esperienza totalizzante e, potenzialmente, destabilizzante (sia nel bene che nel male): può essere appagante ed estremamente stimolante, ma può anche rivelarsi, al contempo, piena di insidie e frustrazioni.
Il cosiddetto “shock culturale” (definizione coniata nel 1960 dall’antropologo Kalervo Oberg per descrivere la sensazione di ansia provata da chi sta all’estero, e generata dall’impressione di aver perso tutti i segnali di riferimento familiari ed esistenziali che sono alla base dell’interazione sociale tra esseri umani) e’ sempre in agguato; ma, così come “destabilizzazione” può avere un’accezione sia positiva che negativa a seconda dei casi e delle situazioni, anche questo tipo di “trauma”, come tutti i traumi, può avere effetti sia positivi che negativi.
Può aprire la mente, dando il via a una più profonda presa di coscienza che porti ad accettare serenamente diversità e differenze come elementi fondanti della vita e fonti di arricchimento, ma può anche causarne la brusca chiusura, con conseguente rifiuto di ciò che e’ “diverso” e la spinta a rifugiarsi in se stessi e in ciò che e’ familiare.
A dire la verità, però, si tratta di un’esperienza che, specialmente con tale intensità, non mi ha mai personalmente riguardato: sono stato in Giappone la prima volta dopo anni di studio, sia personale che a livello universitario, ed ero quindi probabilmente già preparato, per quanto lo si possa davvero essere, a ciò che avrei visto e vissuto. In Cina poi sono venuto dopo anni di frequentazione con l’Asia Orientale, e nonostante l’incredibile e multiforme varietà che esiste in questo enorme paese, non c’e’ nulla che mi abbia realmente fatto provare uno shock.
Almeno non fino a qualche giorno fa…
D’accordo, forse parlare di shock in questo caso e’ eccessivo, ma e’ stato comunque qualcosa di cui ho preso consapevolezza tutto insieme e all’improvviso, e che mi fatto riflettere nonostante non fosse la prima volta che mi trovavo ad osservare una scena del genere.
Vicino a casa nostra qui a Pechino ci sono diversi parchi, il più piccolo dei quali, lo 红领巾公园 (Honglingjin Gongyuan, letteralmente il Parco della Fazzoletto Rosso, in riferimento al fazzoletto colorato portato al collo da boy scout e organizzazioni simili per indicare gradi e differenze gerarchiche ed organizzative) e’ raggiungibile a piedi in poco poco più di venti minuti.
Circa tre settimane fa, di mattina presto, ho accompagnato mia moglie ad un colloquio di lavoro da quelle parti, e ho deciso di aspettarla leggendo un libro seduto su una panchina nel parco. Erano le 7.30 della mattina, ora in cui solitamente a Roma i parchi sono molto poco frequentati (ammesso che siano gia’ aperti), e mi immaginavo di trovare una panchina libera senza nessun problema; mi sbagliavo!
Già a quell’ora il posto era affollatissimo di ogni tipo di gente intenta a godersi l’aria aperta e la bella giornata nei modi più diversi. Quello che mi ha più colpito, oltre al puro e semplice numero delle persone, e’ stata la moltitudine di attività differenti che si stavano svolgendo contemporaneamente, la maggior parte delle quali sconosciuta nei parchi italiani (qualcuna, anzi, da noi avrebbe probabilmente attirato l’attenzione delle forze dell’ordine per disturbo della quiete pubblica).
C’erano, come e’ ovvio, nonni, mamme e papà a passeggio con figli e nipoti, anziani seduti a sventolarsi e chiacchierare gli uni con gli altri e gente che faceva jogging.
Fin qui nulla di strano direte voi…no infatti, o almeno non finché i vostri occhi e le vostre orecchie non avessero preso coscienza del gruppetto di persone di mezz’età intente a cantare con tanto di microfoni e amplificatori non lontano dall’entrata, o finché non aveste visto le gabbiette per uccelli, alcune delle quali finemente decorate, appese ai rami dell’albero accanto all’organizzatissimo signore anziano seduto di fronte a voi (portare gli uccellini al parco per godere del loro canto all’aria aperta e’ una delle più classiche attività dei vecchi pechinesi), che al momento di andarsene le coprirà accuratamente con un panno, le unirà a due a due agganciandole a una corta asta di legno fatta all’uopo e le portera’ via come fossero valigie.
Spinti dalla curiosità, avreste poi incontrato quella che, probabilmente, in tempi non recentissimi, era una giovane promessa di 京剧 (Jingju, quella che viene comunemente chiamata Opera di Pechino), vestita per l’occasione e tutta presa a intonare motivi classici accompagnata dalla musica stridula di un un 二胡 (Erhu, un tradizionale strumento musicale cinese a due corde che si suona con un archetto come il violino) allegramente strimpellato da un suo non meno peculiare e non meno attempato collega.
In un’atmosfera sempre più surreale e animata, l’esplorazione vi avrebbe portato a passare accanto a piccoli capannelli di gente tutta assorta a osservare “agonistiche” partite di 象棋 (Xiangqi, anche noto come Scacchi cinesi, gioco da tavola praticato nel paese sin dal III secolo a. C.) intavolate su appositi tavolini in pietra sparsi per il parco, o su improvvisate scacchiere stese sulle panchine, da appassionati – quanto agguerriti -giocatori più o meno giovani (come e’ del resto piuttosto comune vedere spesso anche agli angoli delle strade della città); oltrepassata l’area addetta alla ginnastica, con macchine dai colori sgargianti (solitamente giallo – o arancione – e blu acceso), colma di estemporanei quanto improbabili atleti dell’ultim’ora affaccendati a battersi contro il grasso superfluo o, semplicemente, a mantenere tonici i muscoli, sareste arrivati allo spiazzo dove – con una coordinazione e una fluidità da far invidia a ballerini classici – cultori di 太极拳 (Taijiquan – noto anche come Tai-chi – celeberrima forma di arte marziale cinese “lenta” che attinge a principi filosofici provenienti sia dal Taoismo che dal Confucianesimo) e di 太极剑 (Taijijian, variante del Taijiquan che prevede l’utilizzo durante gli esercizi di una spada) eseguono con concentrazione e calma i loro movimenti marziali, così simili ai lenti passi di una danza d’altri tempi, immersi in melodie tradizionali.
Dopo aver raccolto la pallina persa da un gruppetto impegnato a giocare a 羽毛球 (Yumaoqiu, letteralmente “palla piumata”, il nome cinese del badminton, che i cinesi giocano spesso anche senza racchetta, colpendo la pallina con i piedi) e aver lanciato uno sguardo furtivo e stupito al signore seduto poco lontano intento a roteare tra le mani due grosse 文玩核桃(Wenwan hetao, letteralmente “noci ornamentali”, coppia di noci lavorate, appositamente scelte per forma, grana e aspetto per formare una perfetta coppia che conferisce loro valore artistico e collezionistico. Maneggiarle a lungo, facendole roteare lentamente con le dita all’interno della mano, massaggiando il palmo, ha un effetto benefico sul cuore e sulla circolazione sanguigna, ed e’ un’attività, collaterale al collezionismo a cui moltissime persone si dedicano quotidianamente camminando oppure seduti sull’autobus ecc.) vi sareste finalmente avviati verso l’uscita costeggiando il lago, lasciandovi lentamente alle spalle quell’inaspettato e multiforme affresco umano.
Rientrato nel solito tran tran urbano, mentre mi dirigevo verso la fermata dell’autobus in compagnia di mia moglie – che nel frattempo mi aveva raggiunto – mi sono sorpreso a riflettere ancora su ciò che avevo appena visto: un sorprendente caleidoscopio di attività umane in poche centinaia di metri.
Senza bisogno di percorrere grandi distanze, o di recarmi in musei o teatri, ho avuto la possibilità di vivere e respirare, nella sue forme più essenziali, ordinarie e, forse, vere, parte dell’essenza di questa cultura e di questa società: il retaggio culturale di una civiltà condensato in gesti ed espressioni codificati in secoli, se non millenni, di storia, e diventati quotidianità e vita.
Alcuni definiscono la cultura come il patrimonio sociale di un gruppo umano, trasmesso di generazione in generazione, che comprende conoscenze, credenze, fantasie, ideologie, simboli, norme e valori, nonché le disposizioni all’azione che da tutti questi derivano e che si concretizzano in schemi e tecniche d’attività tipici di quello stesso gruppo e di ogni società.
Non era forse la descrizione di quello a cui avevo appena assistito?
L’autobus e’ arrivato mentre la domanda, foriera di una nuova consapevolezza, girava ancora nella mia mente.
Leave a Reply
Your email address will not be published. Required fields are marked (required)