di Francesco Bordi
“Logorato da nascita e morte”, o anche “La nascita e la morte mi affaticano” o ancora, traducendo più liberamente, “La reincarnazione mi distrugge”. Queste alcune delle ipotesi lessicali di traduzione relative a 生死疲劳 (Shēngsǐpíláo) di Mo Yan: la grandiosa fatica letteraria, ben 730 pagine nella versione italiana pubblicata da Einaudi, che è valsa all’autore cinese il Premio Nobel per la letteratura 2012.
Shēngsǐpíláo, “Le sei reincarnazioni di Ximen Nao” (nella soluzione scelta dall’editore), è un titolo davvero sorprendente sotto diversi aspetti, ma quello più lampante risiede proprio nella sua natura stilistica. Si tratta infatti di un grande romanzo dalla struttura complessa che tuttavia ci viene raccontato con una semplicità quasi disarmante.
Il validissimo Mo Yan, attraverso due narratori, ci racconta delle vicende di una famiglia allargata dell’area del Gāomì (la parte orientale della provincia cinese dello Shāndōng), affrontandone circa quattro generazioni. Ci spiega con rara abilità i capovolgimenti politici e soprattutto i relativi risvolti sociali della Repubblica Popolare Cinese dal 1950 al 2000 non risparmiandoci dolori, tragedie e frequenti umiliazioni, così come le buffe contraddizioni, le “tenere” descrizioni degli sviluppi tecnologici che progressivamente andavano diffondendosi nel Paese (come la luce elettrica in tutte le aree comuni o le prime radio) e le folkloristiche immagini degli elementi preternaturali di alcuni protagonisti del racconto. Ancor più sorprendenti sono però le descrizioni che il Signor Mo, peraltro attivamente presente tra i personaggi della vicenda, ci fornisce sul protagonista principale nelle varie reincarnazioni che si trova ad affrontar, o meglio a “vivere”…
Leggiamo minuziosamente delle sensazioni dell’asino nell’aiutare il suo padrone nei trasporti. Comprendiamo l’orgoglio di un toro in grado di arare con relativa semplicità grandissime superfici di terreno, sorridiamo nello scoprire i pensieri di un maiale d’allevamento nel gustare il cibo e le gioie dell’accoppiamento. Quindi sentiamo davvero la fedeltà del cane verso il suo padrone; una fedeltà esercitata anche attraverso un olfatto che riveste molte più funzioni rispetto all’unica di cui l’uomo fa utilizzo. Ancora ci divertiamo nel constatare quanto un primate, una scimmia, possa farsi gioco delle nostre abitudini e dei nostri vizi. Infine apprendiamo nell’ultima reincarnazione dell’ex latifondista Ximen Nao (che tornerà ad essere nuovamente un essere umano) a che cosa sia servito l’intero ciclo di nascita e morte a cui è stato sottoposto da Re Yama, l’entità preposta al regno delle tenebre e dei morti.
Il delinearsi dei tratti essenziali, fisici e psicologici, degli animali in cui di volta in volta il protagonista si reincarna viene mostrato in una maniera incredibilmente verisimile. I pensieri e gli atteggiamenti dei quadrupedi e del primate, tanto nella loro dimensione domestica che in quella selvaggia, quindi più istintuale, sono sì assai semplici e chiari ma comunque terribilmente plausibili. Attraverso i pensieri ed i movimenti di queste creature ci troviamo ad esempio a comprendere pienamente l’ineluttabile comportamento di un asino desideroso di montare una mula di un altro padrone benché a scapito della sua stessa vita, o ancora siamo in grado di metterci nei panni, finalmente consapevoli, di un piccolo maialino appena nato che risulta più vicino all’immobilità di una roccia che ad un essere vivente finché non riesce ad avere in bocca una delle mammelle della madre il cui latte gli procurerà un’improvvisa consapevolezza della propria specie che nient’altro potrebbe mai regalargli.
Il dramma “esistenziale” (è il caso di dirlo) risiede negli strascichi dei ricordi relativi alle passate esistenze da parte di Ximen Nao che risulta beffardamente immune al “decotto della Comare Meng” di norma preparato e servito nel regno degli Inferi appositamente per cancellare la memoria dello stadio di reincarnazione appena concluso. Così che ogni animale affrontato nel racconto ha sempre dei momenti, più o meno lunghi, in cui ritorna agli umani pensieri di Ximen Nao con il risultato che le azioni e gli atteggiamenti di quella scimmia o di quel cane risultano quantomeno fuori dalla norma. A questo proposito la sequenza del toro che si rifiutava di servire la Comune per rimanere fedele al proprio padrone ostinato a dichiararsi lavoratore in proprio è sinceramente toccante e piuttosto commovente. Il grosso animale infatti viene preso dai quadri locali del partito per essere impiegato nei terreni appartenenti allo stato. Il suo padrone è Lan Lian: unico lavoratore autonomo di tutta la provincia ed ex dipendente di Ximen Nao, il cui spirito in quel momento risiede nel toro. Colui che lo ha portato nelle fila dei lavoratori dipendenti è Jinlong figlio naturale di Ximen Nao da tempo passato da lavoratore in proprio a lavoratore per la comune. Il toro si rifiuta di lavorare per coloro che avevano vessato ed umiliato pesantemente il suo padrone, nonché amico in una vita precedente, tanto che la sua ostinazione determina la rabbia di Jinlong e degli altri compagni che si risolvono ad incitare ed al contempo punire l’animale rimasto cocciutamente immobile a ricevere le frustate di tutti i lavoratori presenti (compreso lo stesso figlio naturale). La vita abbandonerà il possente animale a causa delle troppe e profonde ferite procurate, ma in punto di morte il bestione si trascinerà fino al piccolissimo appezzamento di terra di Lan Lian per potergli morire accanto.
Ad ogni modo il già grandioso autore di “Sorgo Rosso” è stato naturalmente attento a non dar vita ad un libro di romanzata revisione storica. Il premio Nobel per la letteratura affronta e critica attraverso fatti e misurati discorsi diretti l’intero cinquantennio di fine secolo scorso. Ci ricorda e ci spiega alcune dinamiche terribili come le “parate di critica” durante le quali l’elemento considerato “nero” veniva fatto camminare per le strade con appeso al collo un cartello diffamatorio mentre il resto della popolazione lo insultava lo scherniva e a volte lo colpiva in vari modi. Tuttavia, con la medesima sapienza, l’autore ci mostra anche la crescente corruzione ed i discutibili patti che coinvolgono gli “elementi di rilievo” che verso la fine degli anni ’80 si trovano ad aprire le loro “ferree” concezioni di benessere comune a favore di un capitalismo che ridimensiona di molto la Cina conosciuta fino a quegli anni.
Il romanzo è decisamente intenso nella vicenda, nel contesto storico-sociale e nella caratterizzazione dei personaggi. Leggendo questa lunga fatica letteraria a tratti vengono richiamati alla mente alcuni aspetti di altri grandi romanzi come da un lato “I Malavoglia” di Verga per la corale atmosfera permeata di sopravvivenza sociale che deve riguardare l’intero nucleo familiare, mentre dall’altro lato è “Cent’anni di Solitudine” a fluttuare nella mente dei lettori a causa della dimensione generazionale che “Le sei reincarnazioni di Ximen Nao” assume nella stessa impalcatura narrativa. A differenza dei due capisaldi della letteratura scomodati in questa sede, Shēngsǐ píláo non si concentra su una base pessimistica o su una concezione dell’ “essere vinti dagli eventi”. L’intero tomo si basa unicamente su un concetto semplice e complesso al contempo: il perdono. A Ximen Nao sono occorse sei rinascite e cinque morti per perdonare coloro che lo avevano criticato ed ucciso.
Occorre davvero vivere e morire così tante volte per ottenere la capacità, a questo punto quasi divina, di riuscire a perdonare?
Mo Yan, Le sei reincarnazioni di Ximen Nao, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2012
Titolo originale: 生死疲劳 ( Shēngsǐ píláo )
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