di Fabio Migneco
Tutti conoscono Kevin Smith per le sue commedie irriverenti, per il suo spirito dissacratore e ironico e l’aria bonaria ed è anche per questo che il suo ultimo film sarà per molti una sorpresa.
Perché sono pochi quelli che conoscono l’altro Smith, che sfoga la sua vena più adulta e amara nelle miniserie a fumetti che da anni scrive per i grandi personaggi Marvel e DC (da Devil all’Uomo Ragno, da Freccia Verde a Batman), che disserta di vari temi, non ultimo il male che gli uomini sono capaci di fare, nei suoi articoli e nei suoi podcast, che fa dell’incompreso Dogma (non molti ne capirono il senso reale, fermandosi alla patina nonsense e alle sue solite battute colorite) una piccola gemma di acuta riflessione sulla religione e le sue mille contraddizioni.
Questo per dire che per chi segue Smith da sempre e con attenzione, il nuovo Red State non è che il gradito compimento di un percorso lungo almeno quindici anni. Per il resto del pubblico è molto semplicemente il film indipendente più riuscito dell’anno, sia come resa visiva e contenuti, che come strategia produttiva e distributiva, compreso il rapporto costi e introiti, il tutto in un mix esplosivo che riporta Smith alle origini, quando, ventiquattrenne sbucato dal nulla, stupì i festival di Sundance e Cannes col suo ormai classico Clerks. Pur avendo sempre lavorato in maniera totalmente autonoma, con Red State Smith fa ritorno alle sue radici di guerrilla film maker, andando all’essenza stessa del fare cinema, scrivendo e dirigendo un film che per molti sarà un pugno in faccia, producendolo da sé con costi contenuti, riprese mirate e in economia di tempo e mezzi e distribuendolo da solo, trovando per conto proprio il suo pubblico e il pubblico per un film del genere, senza dover sottostare alle moderne logiche distributive secondo le quali bisogna spendere molto in promozione per ottenere un incasso almeno soddisfacente e non andare in perdita.
Erano anni che si parlava di una sceneggiatura per un piccolo film horror scritta da Smith e sui siti internet era tutto un proliferare di pre-recensioni e previsioni su come potesse essere una pellicola del terrore diretta dallo stesso autore di Mallrats e Jay e Silent Bob Strike Back. Ma Smith lo aveva sempre detto, bastava leggere o ascoltare una delle mille interviste che gli vengono fatte: per lui il vero horror non è quello tutto sangue ed effettacci, ma quello perturbante, che inquieta e si infila sotto pelle, come Shining (anche se qui ci si può trovare d’accordo, volendo, con Carpenter quando disse “pensavo che quel film fosse una commedia”), Rosemary’s Baby o Race with the Devil. Creepy. Questo è l’aggettivo giusto per la sinossi di Red State, per l’atmosfera ricercata e trovata dal regista. Che al contrario di molti film del filone mette in scena un orrore realistico e plausibile e per questo molto più sottilmente disturbante.
Ispirato da un’intervista al pastore battista e omofobo Fred Phelps, contenuta nel documentario dell’amico Malcolm Ingram intitolato Small Town, Gay Bar, Smith mette in scena la storia di tre giovani amici che rispondono a un annuncio erotico per partecipare a una di quelle orge sempre sognate e solamente viste nei siti hard. Lo stuzzicante invito però si rivela da subito una trappola, che li porterà nelle spire di un gruppo di fanatici religiosi, guidati da un folle predicatore. La situazione degenererà rapidamente e, come se non bastasse, si scatenerà l’inferno dentro e fuori dalla fattoria dove i tre sono prigionieri, con l’intervento di una squadra d’assalto che tenterà di risolvere la situazione.
Se fino ad oggi il cinema di Kevin Smith era sempre stato più attento ai contenuti (imprevedibili e ricchi di significati) che alla forma (piuttosto convenzionale, anche se sempre più curata negli anni, film dopo film), con Red State l’assioma si ribalta e se la trama è a ben vedere simile a molti altri film, almeno nelle singole scene, il suo sviluppo e soprattutto la sua messa in scena, non assomigliano a niente di preciso, sancendo un livello di originalità che da tempo mancava al cinema del regista. “Volevo fare un film a metà tra Tarantino e i fratelli Coen” ha più volte dichiarato Smith, indicando così i suoi preferiti tra i contemporanei e proprio da Tarantino ha ricevuto lodi entusiaste che per lui valgono “più di ogni premio” (il regista di Pulp Fiction ha molto apprezzato il film sentenziando “I fucking loved this movie!” e ospitandone alcune delle proiezioni itineranti volute da Smith nel suo Beverly Theatre di Los Angeles).
Red State è il classico film per il quale vale il detto non se ne può parlare, bisogna vederlo. Perché è come tre o quattro film al prezzo di uno (parte come un American Pie qualunque, o come uno dei suoi film, con dei teenager che parlano di sesso senza peli sulla lingua, prosegue come un torture porn alla Hostel, diventa parte film d’assedio, parte western urbano o action movie tout court), non ha protagonisti, solo personaggi, nessuno è più prezioso degli altri ai fini della narrazione, non c’è un vero climax (che anzi ci viene negato), non c’è la struttura narrativa tradizionale in tre atti e non c’è possibilità, per lo spettatore, di identificarsi realmente in qualcuno. Ma ragazzi se è divertente! Sorprende, intrattiene, fa pensare nella sua dimensione di critica sociologica contro ogni tipo di fanatismo e a favore del libero pensiero, disturba, rimane nella mente anche dopo parecchio che lo si è visto.
Merito dell’ottimo lavoro di Smith che nella sceneggiatura arriva a toccare quasi ogni punto scottante e da dibattito socio-politico dell’America di oggi (il fondamentalismo, il terrorismo e le politiche non esattamente accorte per combatterlo, l’omosessualità, l’abuso delle armi da fuoco), fino a una trovata finale totalmente inaspettata. Come mai prima d’ora gira in totale libertà, sbizzarrendosi nell’uso della steadycam e della macchina a mano, coadiuvato in questo da David Klein, il direttore della fotografia (con lui dai tempi di Clerks, ritrovato qualche anno fa dopo alcuni film con altri direttori della fotografia imposti dalla Miramax) che è cresciuto in maniera impressionante e dà al film, tutto girato in digitale ad alta definizione con le macchine da presa RED (non a caso?). Così come è cresciuto moltissimo, ma lo si vedeva già in Clerks II, Zack e Miri o persino in Cop Out, lo stesso Smith come montatore, ruolo che ricopre come di consueto, ma con ancora maggiore consapevolezza e bravura, imponendo alla pellicola un ritmo frenetico che non dà tregua nemmeno nella più ordinaria parte iniziale o in quella del sermone che occupa una buona parte verso la metà esatta del film, che dura circa 88 minuti compresi i titoli di coda e che può essere anche letto come una intelligente e autoriale decostruzione di molto cinema di genere visto fino a oggi.
Veniamo ora allo spirito stesso, al cuore pulsante del film, a coloro che fanno la differenza: i suoi attori. Se il cast di giovani, da Michael Angarano a Nicholas Braun, da Kyle Gallner a Kerry Bishé è perfettamente funzionale, è il cast di caratteristi a dare man forte, volti già noti al cinema del regista, da Betty Aberlin a Marc Blucas fino a Kevin Pollak e Stephen Root, tra i quali Smith non manca di disseminare in piccoli ruoli amici e parenti, come Ernest O’ Donnell, la piccola Ivy Klein figlia di David, o sua moglie Jennifer Schwalbach Smith. Fino ad arrivare ai tre attori che, ognuno a modo proprio, rubano la scena e si impossessano di volta in volta del film: i giganteschi Melissa Leo (di recente premio Oscar per The Fighter), il sempre ottimo John Goodman e il fuoriclasse Michael Parks. La Leo è Sara, la milf (questa cercatela su google) dell’annuncio erotico che si rivela la figlia del pastore, forse la più bigotta e folle di tutta la fattoria, pronta persino a sacrificare la figlia per la dottrina, con uno sguardo carico di pazzia che mette davvero i brividi. Goodman impersona Joseph Keenan, smarrito e disilluso agente dell’antiterrorismo, che guida la squadra d’assalto e che dovrà fare i conti con qualcosa di mai visto prima. Goodman recita di sottrazione conferendo così intensità e significato alla sua performance, alla quale è affidata gran parte del finale. Michael Parks è il luciferino pastore battista Abin Cooper, un Fred Phelps all’ennesima potenza, il vero cattivo della pellicola (ma il semplice manicheismo è a ben vedere assente). Parks, oggi settantunenne, è apparso in oltre cento tra film e telefilm, dalla mitica serie Then Came Bronson (in Italia Dove vai Bronson?) a pellicole quali La Bibbia di John Huston, dov’era Adamo o Il Giustiziere della Notte 5. Negli ultimi anni è conosciuto per il ruolo del ranger Earl McGraw, ricoperto in vari film di Rodriguez e Tarantino (secondo quest’ultimo Parks è il miglior attore vivente), dal prologo di Dal Tramonto all’Alba fino a Kill Bill (dove impersona anche il vecchio pappone Esteban Vihaio) e al dittico Planet Terror e A Prova di Morte che componeva Grindhouse. A lui Smith affida due formidabili assoli, il lungo monologo-sermone che svela pian piano tutta la follia del fondamentalismo e il delirante faccia a faccia finale con Goodman. C’è qualcosa nel modo di recitare di Parks, nel suo sussurrare le battute, che davvero inquieta, impossibile non avere la pelle d’oca quando pronuncia una delle frasi simbolo del suo personaggio e del film stesso: “I fear God. You better believe I fear God.” E quando canta qualche gospel a tema, per dare vigore alle parole reazionarie del suo personaggio non è certo da meno. Altra battuta di culto, segno che Smith non ha mai perso lo smalto e il gusto del dialogo, né di quello torrenziale né di quello a effetto è quando indicando la gigantesca croce nel giardino della fattoria Pollak chiede a Goodman: “How much you think a cross like that costs?” e quest’ultimo gli risponde “You mean in dollars or common sense?”. Una nota curiosa riguardo il cast è che gran parte di esso andrà a far parte di quello di Argo, la prossima regia di Ben Affleck, grande amico di Smith che fu il primo ad affidargli un ruolo da protagonista, e che ruolo, nel suo In cerca di Amy, nonché a sottoporre ai fratelli Weinstein lo script scritto con Matt Damon, Will Hunting, per il quale Smith fu tra i produttori esecutivi insieme a Scott Mosier. Tendete l’orecchio alla fine dell’ultima inquadratura: la voce che si sente è dello stesso Smith, in un divertente cameo vocale (anche in altri momenti il regista non rinuncia all’ironia).
La lunga sparatoria della seconda parte di Red State dimostra infine una bravura anche tecnica di Smith, per una messa in scena che riecheggia addirittura Sam Peckinpah, in quello che è un film da non perdere sui mali dell’America contemporanea, i suoi falsi miti scricchiolanti e i suoi figli reietti.
Scovatelo on line con la formula del video-on-demand, rincorretelo nei Festival laddove verrà proiettato, compratevi il blu-ray d’importazione ma assicuratevi di vederlo, perché è il film del momento per quanto riguarda il cinema indipendente, ha attori eccellenti che sarebbe un delitto se non venissero presi in considerazione dall’Academy per uno o più Oscar (sì, sono così bravi) e soprattutto ha già fatto storcere il naso a molte vecchie cariatidi, tra i distributori (alcuni imbufaliti dopo il discorso di Smith al Sundance), i critici (disorientati di fronte al geniale mash-up di generi) e il pubblico (da sempre poco incline a tutto ciò che è nuovo, originale e sfugge alle loro etichette). Già basterebbe questo a renderlo imperdibile.
Per ulteriori info su Red State: http://coopersdell.com/
Per guardare il trailer ufficiale dell’ultimo film di Kevin Smith, ancora inedito in Italia: http://www.youtube.com/watch?v=uJ1v6oFHefc
Per maggiori info su Kevin Smith: https://www.culturalismi.com/culturalismi/dal-film-al-pop-olare/smithology-da-clerks-a-red-state-unapprofondita-panormamica-del-cinema-di-kevin-smith.html
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