Quel che l’Editore vede ovvero dell’inesausta ricerca dell’Autore, scardinando luoghi comuni in un (in)canto di voci diagonali. Annalisa Proietti e Gran Vìa Edizioni Parte 3

di Francesco Bordi & Antonella Narciso 

C: «Parlando proprio del tuo catalogo e dei cataloghi delle strutture a te affini, che rapporti hai con gli altri editori italiani? Come ti confronti con i colleghi che possono essere, più o meno, i tuoi diretti competitor?».

AP: «I rapporti sono come quelli che sussistono in ogni tipo di lavoro, si instaurano inevitabilmente delle amicizie, delle simpatie, delle attività insieme, dell’affinità che non necessariamente riguardano poi l’ambito editoriale in senso stretto. Ad esempio io spesso mi confronto con una collega che si occupa di letteratura per l’infanzia. In realtà abbiamo poco in comune per target e catalogo, però viviamo la stessa esperienza all’interno di Messaggerie. Abbiamo anche due età diverse, tuttavia se ho un dubbio il primo editore che chiamo è proprio lei, Giuliana di “Edizioni Corsare” perché so di avere di fronte a me una persona fidata, professionale, aperta e sincera con cui potermi confrontare.

Nel passato ho avuto esperienze molto positive con altri editori. Con “Edicola edizioni”, che si occupa di letteratura cilena, ma non solo, abbiamo in comune Nona Fernandez in catalogo e quindi abbiamo deciso di condividere anche uno stand a Torino. Con “Polidoro editore”, invece, abbiamo in comune un’altra autrice, DIAMELA ELTIT. Noi due assieme ad un’altra casa editrice, la “Mimesis”, abbiamo seguito il suo tour in Italia.

Si creano quindi delle sinergie molto interessanti. Competitor ci sono inevitabilmente, ma io cerco di vivere la cosa nell’unico modo possibile: vedendo che una competizione non può che spingermi a fare ancora meglio, proseguire lo scouting con maggiore attenzione, andare alla ricerca del testo giusto per me con la maggiore puntualità possibile, fermo restando che ci sono delle individualità ben distinte.

Su alcuni autori e su alcuni titoli, però, ci sono inevitabilmente delle sovrapposizioni. Questo avviene sempre più frequentemente con “Nuova frontiera” e con “Sur”. Più volte ci siamo interessati allo stesso testo, ma volendo estraniarmi da una questione prevalentemente commerciale ed autoreferenziale, direi che è un bene che ci sia così grande attenzione nei confronti della letteratura latinoamericana, perché è un mondo ampio. Sono ancora molti gli autori, anche non recenti, che possono e debbono essere presi in considerazione. Ad esempio recentemente abbiamo pubblicato  I LEVRIERI, I LEVRIERI, questo malloppone del ’68 di cui vi ho parlato che non era stato mai pubblicato, INEDITO TOTALE. Considero la sua un’autrice di altissimo livello, eppure questa sua opera non si era mai vista sul mercato italiano. L’importante è che la letteratura latino-americana arrivi in qualche modo, no?».

C: «Anche perché se si smuove il bacino culturale dei lettori, è meglio per tutti».

AP: «Certo ed aggiungo un’altra cosa: se qualcuno ha letto Onetti, Arlt o Saer è un bene. Questi autori, nel catalogo di altri editori italiani, sono propedeutici per Gran Vìa che pubblica scrittori venuti decisamente dopo ma che hanno un’evidente continuità con quello che c’era prima. Se il lettore italiano, dopo aver letto il nostro HERNAN RONSINO in qualche modo conosce Onetti che ha preparato il terreno, diventerà un lettore ancora più consapevole, in grado anche di apprezzare, se vuoi ancor di più, il nostro Ronsino.

Quindi, tutto sommato, si tratta di una competizione che vivo in maniera assolutamente costruttiva, serena e che mi spinge, laddove è possibile, a cercare anche di arrivare prima ed essere più puntuale nel mio scouting».

C: «Quindi nel tuo fare scouting non passi mai dalle traduzioni, per esempio dal francese o altre lingue franche, solo valutazioni dirette».

AP: «Non conosco il francese ed è anche un limite. Nel momento in cui c’è Vincenzo Barca, uno dei traduttori con cui lavoriamo, che mi passa un testo in francese, se io non ho la versione in spagnolo, o quantomeno in inglese, per me è difficile valutarlo, pur stimando moltissimo lui e gli altri traduttori. Dovrei andare a pubblicare un testo basandomi esclusivamente sulla fiducia. Mi rendo conto che è un limite, ma io leggo il castigliano. Se conosci questo ed il francese ti può aiutare a capire un pochino anche il catalano. Mi è capitato di leggerlo ed in quelle occasioni ho cercato di ricordare il mio corso di francese che avevo seguito, per circa sei mesi, quando ero a Pesaro… Non è abbastanza per scegliere un autore.

C: «Prima di te e di altri editori indipendenti che si sono lanciati su questo genere, c’erano alcuni grandi editori, gruppi editoriali per essere precisi, che si dedicavano al latinoamericano, soprattutto negli anni ’80, poi hanno fortemente rallentato. A dire il vero si trattava soprattutto di un certo tipo di letteratura sudamericana.

AP: «Si tratta della questione del “realismo magico” che ha aiutato e contemporaneamente ostacolato quel tipo di letteratura. Un po’ perché c’è stata talmente tanta attenzione in passato su questo stile, che poi alla fine sono stati tralasciati tutti quegli autori che non potevano essere inseriti nel filone. SUR, meritoriamente, ha ripreso alcuni degli scrittori che erano stati un po’ dimenticati ed ha così colmato il buco strutturale creatosi. C’è poi anche una questione relativa al lettore. Quando ti bombardano con un determinato gusto, con una determinata tipologia di autori alla fine arrivi a saturazione e metti uno stop a quella casa editrice che, a sua volta, lo avverte e ferma tutto quanto. Nel frattempo però è stato pubblicato tanto di diverso in quei Paesi, sia durante che dopo il famoso realismo magico. Ancora oggi, per molti la letteratura latinoamericana è Marquez e stop, solo quello.

Anche qui le fiere sono importanti, soprattutto da questo punto di vista. A volte rappresentano botte di autostima mentre altre volte ti costringono ad un bagno di umiltà… Mi è capitato diverse volte di sentirmi dire: “Chi siete? Gran Vìa? Ah, carini. Cosa fate? La letteratura latinoamericana? Ah sì, però non è per me”. Ecco poi, magari quando approfondisci, vedi che tutto si limitava a “Cent’anni di solitudine” o quasi.

Quando ho cominciato a fare scouting su quel tipo di autori, venivo da ricerche sul mondo angloamericano, ma ancor prima da lettrice mi ero appassionata ai classici ottocenteschi o del primo ‘900, soprattutto Foster, James e dopo Roth e via dicendo.

Poi cominciando ad andare nel mondo latino una certa differenza la percepisci subito, anche quando non si parla di quel famoso realismo magico presente in Marquez.

C: «Intendi il diverso approccio emotivo? Il fatto che molte descrizioni indugino sugli stati d’animo?»

AP: «Non mi riferisco solo a quello. Non la vedo unicamente così quel tipo di letteratura perché poi ti trovi di fronte ad una Nona Fernandez che sa essere emotiva ed empatica su alcuni aspetti, però allo stesso tempo si dimostra molto analitica ed oggettiva sulle stesse situazioni.

Quando poi ti sposti verso la non fiction, sul discorso intrapreso ad esempio nella collana diagonal, ecco che lì c’è ancora un altro tipo d’approccio che non è assimilabile all’immaginario sudamericano.

In quel caso, quando gli autori sono in stato di grazia, quella letteratura ibrida e fluida che esce dalla commistione di generi diversi, secondo me, tende ad eccellere.

Perché, ad esempio, i lettori amano tanto “la dimensione oscura” di Nona Fernandez? Lei affronta il tema della dittatura cilena da un punto di vista storico, però anche molto personale. Si tratta di un “mio” punto di vista che diventa anche universale e viene traslato su alcuni dati oggettivi che fondamentalmente rimangono. Cosa fa lei su questi fatti? Ci applica il tema della fantasia, quindi parte da alcuni dati concreti, dalla storia, dalle ricerche d’archivio che ha svolto per poi narrare anche altre vicende. È consapevole che alcune sono documentabili ed altre no, ma è questo il bello. Ad un certo punto gli archivi si fermano e subentra l’immaginazione di chi scrive che permea tutto quanto.

Molto difficile riuscire in questo processo, ma quando accade viene fuori un buon prodotto.

Per certe collane, poi, c’è anche il desiderio di scegliere un argomento che in qualche modo si leghi all’attualità; anche questo non è semplice ma a volte ci si riesce. Per esempio ne La casa del dolore altrui, di Julián Herbert l’autore indaga su un eccidio di cinesi durante i primi anni della guerra civile messicana, quindi stiamo parlando del 1911 – 1912, un fatto molto lontano nel tempo, si potrebbe pensare. Cosa importa ad un europeo o meglio ancora ad un italiano di quanto è successo in questo paesino del Nord del Messico agli inizi del ‘900 ad una comunità di cinesi? Il rischio di appesantire la narrazione era molto alto, ma lui che fa? Va alle origini della diaspora dei Cinesi nel mondo e si domanda perché sono sparsi ovunque, affondando la sua indagine nelle radici nell’Ottocento per poi arrivare al caso specifico facendo un continuo avanti e indietro nel tempo. Herbert si è messo proprio sulla strada, facendo il giornalista on the road che va negli archivi, ricostruisce la storia e banalmente, di tanto in tanto, prende un taxi ed intervista il conducente: “Cosa ne sa lei di questa cosa?”, per mostrare al lettore anche qual è l’eredità di quanto è accaduto. È un modo per riproporre un argomento, lontano nel tempo facendolo però sentire come attuale».

C: «In fin dei conti, la letteratura sudamericana potrebbe disorientare un po’ chi è abituato a leggere tanta letteratura europea, o anche nordamericana, che comunque ha un’impronta europea. Esistono degli stilemi, dei sistemi di costruzione delle storie che forse al lettore-tipo nostrano possono risultare più difficili da recepire, magari perché quel popolo li ha interiorizzati con una stratificazione storica diversa.

Il paradosso è che ultimamente è più facile trovare un lettore di narrativa giapponese contemporanea che sudamericana, benché sulla carta quella asiatica sia molto distante rispetto a noi.

Gruppi editoriali generalisti o case editrici molto grandi, e anche editori indipendenti, come O barra O, o ancora Lindau, si impegnano per pubblicare ogni anno almeno un certo numero di titoli, anche piccolo, relativi all’Estremo Oriente, che si tratti di Cina, Giappone o Corea; sono addirittura uscite intere collane in edicola relative al mondo letterario e culturale asiatico e quando arrivi in edicola sei molto popolare. Quel passaggio indica che ormai sei sdoganato al massimo livello.

Il Sudamerica è presente a livello di offerta culturale in Italia da molto prima, eppure non ha la stessa penetrazione della letteratura asiatica che forse beneficia del supporto culturale dei manga, di un approccio letterario tendenzialmente più delicato, di vesti grafiche più accattivanti o magari anche di un’economia emergente che crea forse più curiosità rispetto ad alcune zone sudamericane dall’esito sempre incerto

AP: «Il discorso espressivo-culturale potrebbe essere una motivazione. Allora, i titolari di “Edicola edizioni”, fino a qualche anno fa, stavano sei mesi in Italia e sei mesi a Santiago. Vivevano l’estate da una parte e poi “migravano” verso l’altra estate. Sono una casa editrice giovane, credo siano nati nel 2015 o giù di lì. Loro che vivevano proprio dall’interno la letteratura cilena, mi dicevano che alla domanda “Ma in cosa la letteratura cilena differisce dalla letteratura italiana?”, la risposta era sempre: “Sono molto più innovativi, non hanno paura di osare, anche a livello grafico. Non hanno soggezione”. Sottolineavano il fatto che soprattutto le realtà editoriali indipendenti sono particolarmente innovative rispetto alla letteratura ed all’editoria italiana. Non hanno alcuna paura di sperimentare.

Io, nel mio piccolo, ho “litigato” per mantenere la grafica del mio quadrotto di Gran Vìa, il mio marchio, che sebbene non fosse chissà quanto innovativo, era comunque mal visto dagli addetti del settore.

Problematiche simili le ho avute riguardo a diagonal: all’uscita di questa collana ibrida in occasione di una delle edizioni del Salone di Torino, probabilmente nel 2017, mi hanno proprio detto così: “Ma il libraio, di solito, questi titoli dove li mette?”. Era il settore “store”. “Questo Herbert dove va? Sotto storia? Sotto saggio? Sotto narrativa?”. E io lì a spiegare che era un po’ di tutto, fondamentalmente, ma loro allora replicavano: “ma cosa prevale?”. Dovete sapere che quando il testo arriva in negozio, il libraio di catena, non Mannaggia Libreria di Perugia che fa lo scaffalino Gran Vìa, ma ad esempio il libraio della Feltrinelli, vuole sapere precisamente come catalogarlo.

Il discorso dei racconti è molto simile: ne pubblico tantissimi e spesso le mie controparti commerciali mi interrogano al riguardo: “Ma tutti questi racconti… insomma, sei convinta?”. Io per molto tempo il problema me lo sono posto per mille motivi. Il primo è che muovendomi nel mondo latinoamericano mi imbatto percentualmente in molti più racconti che non romanzi, perché è il loro genere principe, soprattutto da Cortázar in poi: facendo scouting in un contesto in cui il racconto la fa da padrone, vince spesso premi letterari, scala le vette delle classifiche, sei portato a credere di poter trasportare quel genere nel mercato italiano. Ragionando e investendo nel racconto, sotto tutti i punti di vista e quindi non soltanto a livello economico, ma anche proprio di promozione, di ufficio stampa. Anche in questi casi sembra sussistere una grande differenza con il genere del romanzo. A complicare le cose esiste questo falso mito che il lettore italiano non ami il genere del racconto.

Va detto però per completezza che, rispetto a qualche anno fa, è molto più difficile avere il polso preciso della situazione. Al di là della scelta fra romanzo e racconto da immettere sul mercato. Prendiamo il discorso del prezzo: prima c’era la tendenza consigliata di mantenerlo basso, poi si è visto che in realtà non era necessario. Successivamente c’è stato qualche piccolo assestamento sulla legge Levi, fondamentalmente il discorso del del 5% come massima scontistica. Quindi si sono susseguite le applicazioni relative agli e-book. È normale che anche i referenti ormai possono dare sempre più difficilmente risposte univoche ai miei quesiti, soprattutto se io sono convinta di una determinata linea e cerco assolutamente di seguirla.

Ad ogni modo credo che il mondo editoriale stia diventando sempre più difficilmente inquadrabile quantomeno quello italiano. Anche sui folder di presentazione e le relative prenotazioni in libreria riscontro un’oscillazione che mi lascia perplessa. Investo in queste cartelle a doppia facciata che presentano i miei libri in uscita. Magari inserisco le classiche, le informazioni, una delle recensioni, addirittura un estratto della traduzione. Il libraio, invogliato, reagisce di conseguenza con delle prenotazioni, ma la risposta delle vendite non è adeguata. Altre volte, invece, mi trovo con dei prenotati che sono incredibilmente alti senza nessun motivo apparente, poi la volta dopo dimezzano.

Quindi capite bene che è piuttosto difficile per un editore fare una programmazione a lungo termine sulla vita di quel tipo di testo, anche perché a prescindere dalla ricezione alta o bassa da parte del pubblico, le tirature hanno sempre un costo.

Diciamo che ho sempre più consapevolezza dei testi che vado scegliendo, ma sempre meno sicurezza sulla risposta del pubblico dei lettori.

Plateale il caso dell’anno scorso. Pubblico una raccolta di racconti di un’attrice colombiana esordiente assoluta, giovane, promettente. Racconti nuovi e bellissimi. Da poco mi ero aperta alla Colombia, una scelta assolutamente consapevole. Insomma questi racconti vanno insospettabilmente bene soprattutto se pensiamo a queste famose leggende metropolitane della giovane autrice sconosciuta che scrive racconti. Uno non aveva tutte queste grandi aspettative. Le sue vendite invece ci hanno sbalordito.

Poi magari pubblichi il romanzone, sì voluminoso, però con un prezzo tutto sommato contenuto rispetto alla mole. Ovviamente di un’autrice a cui hanno dedicato anche un premio letterario. Per dirvi quanto è stato importante il libro precedente, vi dico che era uscito per Solferino. Quindi, come dire? La strada era stata un pochino aperta. Si tratta in assoluto di un capolavoro, non per tutti perché qui lei è un’autrice che ha sperimentato molto, ma stiamo parlando di un ottimo testo. Bene, succede che il libro fatica, sotto diversi punti di vista. Eppure, il nome, i premi, la popolarità, c’era tutto…  Non so, è difficile avere i parametri per poter giudicare l’accoglienza di un determinato titolo Questo a conferma del fatto che più passa il tempo e più acquisisco alcune consapevolezze da un lato, dall’altro invece viene meno questo passaggio, come dire, finale. Spesso mi viene consigliato di migliorare il sito della casa editrice o di insistere maggiormente su social come Instagram, ma il riscontro non è comunque così certo. Continuo a pensare che il passaparola e la capacità di consigliare, da parte del libraio che ti apprezza, siano superiori agli strumenti digitali».

C: «E qui scatta la domanda d’attualità, Che ne pensi delle applicazioni dell’Intelligenza artificiale in letteratura? Inizialmente molti colleghi ridevano della possibilità che un programma, sfruttando degli algoritmi, potesse generare un testo valido a livello letterario. Nell’ultimo periodo però sono andate aumentando le preoccupazioni dopo aver visto che i risultati ottenuti non solo erano buoni, ma potevano addirittura essere rapportabili a testi di scrittori realmente esistenti».

AP: «Su questo tema, ammetto la mia ignoranza. Ci ho riflettuto qualche giorno fa ma da altri punti di vista, ad esempio le traduzioni. Svolgere delle traduzioni letterarie è particolarmente difficile, considerate che io di solito mi occupo di traduzioni tecniche. Pur avendo una pratica credo abbastanza assodata con i vari utilizzi della lingua italiana, la traduzione letteraria comporta comunque un salto di qualità che io non mi sento in grado di affrontare. Anche perché rispetto troppo il lavoro dei miei traduttori che sono fondamentali. Conosco talmente bene l’ottimo lavoro che fanno i professionisti per potermi anche lontanamente paragonare a loro: formazione, abitudine, esperienza e soprattutto sensibilità letteraria propria di alcuni esperti del mestiere. Mi ricordo i miei primi contatti con Giovanna Scocchera circa le traduzioni inglesi ai tempi di altrevie, la collana europeista. Mi si è aperto un mondo. Lei nel tradurre, utilizzava parole a cui non avresti mai pensato, a volte cambiava molto, ma nel momento in cui tu leggevi il suo lavoro, avevi l’esatta immagine, l’esatta sensazione, l’esatta percezione di quello che effettivamente era il testo originale. Mi aveva lasciato basita. Aveva la personalità di chi padroneggia entrambe le lingue. Adesso non so quali saranno le gli sviluppi dell’intelligenza artificiale. Probabilmente le potenzialità sono notevoli, però non so veramente quanto quella sensibilità nel rendere ad esempio un’originale inglese, possa essere nelle corde di un programma che si basa su algoritmi.

Capisco anche la preoccupazione di un autore di fronte ad un testo che non ha scritto lui e che però sembra verosimile. Ecco, più che altro io sono preoccupata per questa verisimiglianza. In questo senso avverto dei timori.

A volte, mi trovo a chiedermi se alcune cose sono reali o meno. Le mie conoscenze non sempre mi permettono di darmi una risposta. Un’informazione può essere verosimile e può aderire alla realtà, ma non è detto che sia vera Questo è un dubbio che, probabilmente dalla pandemia in poi, è diventato abbastanza evidente».

C: «Il punto di vista critico, però, già ci salva tanto. Il fatto che comunque ci interroghiamo sulla veridicità o meno di notizie, su come ci vengono poste, chi le pone, moderatamente ci salva invece di dare per buono tutto. Oggi poi abbiamo molti più strumenti rispetto al passato per verificare. Possiamo raggiungere l’origine delle informazioni con meno difficoltà. Le fonti sono fondamentali, anche se spesso sono criticabili a loro volta»

AP: «Nonostante questa formazione critica e nonostante abbia una conoscenza nella media, mi trovo sempre più spesso a farmi questa domanda: “Le informazioni che sto leggendo, non necessariamente di tipo tecnico, sono comprovabili? Sono vere?”. Alcune verità sono probabili, come dice Barbero, le date, alcuni fatti storici… Però, anche nel racconto di quella verità fondamentalmente finché lo vivi tu può avere un valore. Nel momento in cui quell’oggetto passa attraverso diversi racconti, ecco che la verità si perde.

Pensiamo alle generazioni un pochino più giovani di noi. Io stessa arrivo a fine giornata avendo ricevuto talmente tante informazioni, cercate più o meno volontariamente, che nei fatti sono poche le notizie che riesco ad immagazzinare in questo immenso flusso incessante. Spesso mi viene la nausea. Ed io non sto nemmeno sui social, a parte Twitter!

Se immagino un ragazzo, negli anni della sua formazione, bombardato molto più di me… Ecco io non so come possa non perdersi».

C: «Sono generazioni abituate ad immagazzinare dati e sequenze veloci fin dall’infanzia. Sono nativi digitali e solo andando avanti vedremo cosa avrà significato questo nella loro formazione che per noi magari è eccessivamente rapida, ma per loro è forse l’unica di cui possono servirsi.

Parlando di “ragazzi”, ci dici tre nomi di autori latini, figli di Gran Vìa, di cui sei fiera?

AP: «No, dai! È scorretto! E che faccio figli e figliastri?!!! Facciamo così vi dico dei nomi recenti e “caldi” per differenti motivi. Visto che prima ho citato il traduttore Matteo Lefèvre, vi rispondo iniziando con Juan Gómez Bárcena autore di Il resto è aria  un romanzo-fiume, tradotto appunto da Matteo, che segna il ritorno alla Spagna, come da origini di Gran Vìa. Quindi non un autore sudamericano. Un romanzo molto sfaccettato e la cosa più interessante, secondo me è la sua gestione del tempo. Ruota tutto intorno ad un paesino della Cantabria raccontato non attraverso i secoli, ma attraverso i millenni. Detta così, sembra quasi una sfida impossibile, ma lui ci è riuscito. Molto carino anche a livello grafico e persino documentale, visto che l’autore ha studiato negli archivi andando indietro fino al 1700. Poi altre vicende le ha, più o meno inventate o immaginate, ma sempre sulla base dei riscontri di natura storica.

Poi, come secondo nome, vi do Marina Closs. Siamo in Argentina, torniamo quindi nel continente latinoamericano: Tre tuoni. Sono tre sue novelle che trattano fondamentalmente tematiche femminili. Il primo racconto in particolar modo è molto sperimentale anche a livello di linguaggio, una vera sfida per il traduttore. Chiuderei con Sara Gallardo che non è più fra noi, infatti ho dovuto trattare con gli eredi. Il suo I levrieri, i levrieri è una delle mie due ultime pazzie editoriali di oltre cinquecento pagine.

C: «Avevamo letto già qualcosa su questi Levrieri. A proposito della stampa di settore, in più di una occasione ci siamo accorti che hai una buona attenzione della critica letteraria, diremmo che puoi vantare una rassegna stampa di tutto rispetto. Vi siete guadagnati quest’attenzione direttamente sul campo, oppure ricercate voi stessi dei contatti potenzialmente interessati? Sembrerebbe una felice abitudine».

AP: «Ci sono alcune testate che ci vogliono particolarmente bene. Il Manifesto, ad esempio, ma questo non è un nostro merito. È prevalentemente grazie a Francesca Lazzarato che è un ispanista di altissimo un livello e che è super-attenta nei confronti di tutto ciò che si pubblica in nell’ambito spagnolo e latinoamericano. Di fatto è un punto di riferimento per noi imprescindibile e, allo stesso tempo, un punto inarrivabile di conoscenza, di consigli… L’abbiamo anche cercata per affidarle alcune traduzioni e meno male che ha accettato, perché lei fa parte di quel gruppo di professionisti della parola letteraria di cui vi avevo accennato. Lei è bravissima, come la Scocchera, Matteo Lefèvre e vi citerei anche Raul Schenardi che ha tradotto per noi “Jamás el fuego nunca”, ossia Mai e poi mai il fuoco di Diamela Eltit. Leggendo il testo avevo proprio pensato a lui che, fra le altre cose, aveva tradotto per Voland una scrittrice messicana piuttosto nota.

Tutto nasce da una conoscenza più o meno approfondita dei traduttori e dei testi su cui hanno lavorato. Successivamente si va alla ricerca di possibili affinità».

C: «I traduttori sono importantissimi, questo è certo, soprattutto per una casa editrice come la tua. Ma se ti chiedessimo qual è la vera chiave secondo te per fare il salto? Cos’è che manca per un balzo non di qualità, perché tu già sei un editore di qualità, ma per raggiungere un bacino più ampio di lettori e che ti faccia arrivare a livello dei grandi o dei gruppi editoriali. Cosa manca secondo te?».

AP: «Tempo fa vi avrei risposto: perseverare nella coerenza del catalogo, essere riconoscibili. Oggi tutte queste cose non bastano. Probabilmente una risposta possibile è avere la fortuna di individuare un autore che possa veramente fare da traino a tutta la casa editrice. Questo non vuol dire che gli autori del catalogo non siano di qualità, però parlo di uno scrittore che per una serie di motivi riesca a scardinare quei limiti distributivi, comunicativi e promozionali che ogni piccola casa editrice si trova ad affrontare. Io poi ho parlato di “fortuna”, ma in realtà non si tratterebbe solo fortuna, ma anche capacità e costanza, insomma l’abilità di non disperdere energie ed individuare l’autore giusto al momento giusto».

C: «Ascoltandoti ci sono venuti in mente dei parallelismi, ad esempio la Nothomb per la Voland oppure la trilogia di Holt di Kent Haruf per NN Editore. Magari non sono esempi precisamente calzanti, ma rendono più o meno l’idea. Ora concludiamo con una delle nostre domande più classiche, la domanda culturalista per eccellenza: consiglieresti questo lavoro a qualcuno?

Il volto di Annalisa è divertito, perplesso e sorridente…

«Pensaci bene, uno che vuole intraprendere questa irresponsabile carriera. Diciamo un giovane sui ventitré anni che ti dice: “Voglio fare l’editore. Sono venuto da te per un consiglio. Che faccio?”».

AP: «(Continuando a ridere) Gli direi di fare molta esperienza, in una qualche mansione, all’interno di una casa editrice. Poi dopo, qualche anno, domanderei di prendere in considerazione, eventualmente, l’apertura in proprio.  Questo non vuol dire che non sia possibile avviare una casa editrice a ventitré anni, però io consiglierei magari di capire come funziona la struttura dall’interno, lavorando per terzi, anche per comprendere le problematiche dell’editoria italiana e soprattutto per fare una scelta quanto più possibile consapevole sapendo comunque che la consapevolezza massima non ci sarà mai».

C: «Grazie. Grazie di cuore Annalisa».

AP: «Grazie a voi!».

 

Foto d’apertura articolo by Antonella Narciso © tutti i diritti riservati 

Foto di Gran Vìa in fiera by Francesco Bordi © tutti i diritti riservati 

 

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