di Fabio Migneco
Debutto d’eccezione alla regia per Dustin Hoffman, reduce dalla cancellazione del serial Luck (un peccato che la HBO non abbia portato avanti la cosa perché a parte qualche lentezza, il livello qualitativo, specialmente per quanto riguarda il comparto attoriale era eccellente). L’attore sceglie, a 75 anni dopo decenni di ripensamenti, di passare dietro la macchina da presa con un film (presentato a Toronto e in apertura dell’ultimo Torino Film Festival) piccolo ma delizioso, sia nell’idea che nella sua esecuzione. Benché la storia sia di Ronald Harwood, tratta dalla sua commedia teatrale, il tipo di umorismo che la pervade sembra proprio quello di Hoffman, per come lo conosciamo da anni di interviste, dichiarazioni, dietro le quinte e aneddoti, o per lo meno affine al suo.
Con grazia e levità dirige una commedia umanissima che dice anche due o tre cose affatto banali sulla vecchiaia. Come tutti gli attori che si fanno registi trae il meglio dai suoi interpreti perché sa parlare loro nella stessa lingua, quella più congeniale, dà loro il giusto spazio e il giusto tempo. Ottenendo in cambio riuscite caratterizzazioni da parte del cast di contorno (quasi tutto formato da autentici talenti della musica operistica e non che fu, come testimoniano i titoli di coda) e sublimi performance dal quartetto protagonista. Tom Courtenay e Maggie Smith, coppia scoppiata decenni prima ma che forse non ha mai smesso di amarsi scivola pian piano verso una possibile riconciliazione che è l’anima romantica del film. Pauline Collins rende con candore la sua Cissy, la cui demenza senile non le impedisce di essere tra le persone migliori all’interno della casa di riposo per musicisti dove il tutto si svolge. E poi c’è Billy Connolly, strepitoso comedian scozzese che, come tutti i più grandi nomi della stand-up comedy, è anche un bravissimo attore. Qui, nella parte del vecchio senza peli sulla lingua né freni inibitori che fa e dice quello che vuole ma sempre con innata classe, anche quando impreca, è perfettamente a suo agio, chi conosce i suoi spettacoli (come l’amico Hoffman) sa di cosa parliamo. Forse di recente si è visto persino di meglio sull’argomento (Marigold Hotel per esempio), ma Quartet ha una sua piacevolezza intrinseca, scorre via soave e sa emozionare. Il fascino dell’opera fa il resto, con una selezione di brani forse ovvia per i cultori, ma riuscita. Hoffman regista promosso a pieni voti dunque, per l’arguzia e l’umiltà dimostrate e per l’intelligenza nell’aver scelto una storia di questo tipo e dimensione, con l’augurio che non resti solo un episodio isolato (potrebbe, perché no, diventare una seconda carriera a tutti gli effetti). E visto che non guasterebbe affatto vedere più spesso al cinema un gigante come Connolly, perché non un film in coppia diretto dal Piccolo grande uomo Dustin?
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