Quante volte ci vogliono per comprendere la distanza fra l’occhio che filma e la realtà che viene ripresa? “24 volte la verità” di Raphaël Meltz. Perché filmare non è osservare

di Francesco Bordi

 

24 fois la vérité…

24 volte…

Ben 24

Su cosa sia la verità, cosa è e cosa non lo è, potremmo dibattere per ere! Anni ed anni passati a cercare di avvicinarsi ad un compromesso che ci farebbe di certo debordare spingenoci inevitabilmente verso le amene spiaggie della filosofia.

Spostare la ricerca dalla verità assoluta a quella nell’ambito della settima arte, quella della pellicola cinematografica, potrebbe forse apparire più semplice, ma temo invece che si potrebbe impiegare ancor più tempo per dirimere la questione.

E se aggiungessimo invece un bel 24 davanti alla parola “verità”?

Anzi, correggendo ulteriormente il tiro, potremmo porre, fra il suddetto numerale e quel sostantivo così altisonante, un bel determinante temporale. Et voilà!

24 volte la verità è un romanzo dall’impalcatura impressionante scritto da Raphaël Meltz e pubblicato dall’abile francofono Prehistorica Editore. La vicenda non ci viene solamente raccontata dal narratore, ma ci viene mostrata attraverso il suo occhio, o meglio tramite il suo “cineocchio” (per dirla alla maniera dei cineasti russi).

In questa storia non si mischiano, così, cinema e letteratura, tematiche fin troppe volte affrontate all’unisono (certamente più di 24). Nelle 260 pagine presentate in questa sede si uniscono, invece, il “dietro le quinte della pellicola” e la poesia che ne scaturisce, conosciuta sì da molti, ma non negli aspetti più artigianali dei propri inizi.

Adrien P, su suggerimento di suo padre, decide di raccontare la storia del nonno paterno, Gabriel P. Sì, avete capito bene cari lettori culturalisti, la sua storia, in generale, perché l’intera vita di Monsieur Gabriel P coincide in pratica con il Novecento. Le sue date? 1908: la nascita – 2009: i titoli di coda. Circa 100 anni che hanno potuto testimoniare, davvero molto presto, un uomo che filmava gli eventi più importanti e meno importanti di ciò che lo circondava, sia a livello privato che a livello pubblico. La storia professionale di questo cineoperatore coincide, infatti, con la Storia Contemporanea ma comincia con un vuoto estremamente intimo: la morte di sua sorella a soli 11 anni di vita. Era la piccola Hélène che aveva messo in mano la Pathé-Kok, la primissima cinepresa per il grande pubblico, al suo fratellino che aveva sei anni meno di lei. Il piccolissimo Gabriel riprende sua sorella per gioco, o almeno ci prova, nel corridoio di casa sua. Sarà l’ultima immagine di quella bimba. La settimana successiva una brutta caduta determinerà una commozione celebrale a lei fatale. Da lì inizia la storia che avrete modo di leggere. Gabriel cresce, la lunghezza delle pellicole che utilizza cresce. I centimetri di quelle striscette aumenteranno così tanto che in breve tempo lo porteranno a filmare per lavoro. Ugualmete crescono, di importanza, gli eventi che finiscono sotto “l’occhio a manovella” di questo ragazzo degli anni ’20: dal corridoio di casa ai grandi conflitti che vedono la sua Francia fra le protagoniste delle vicende internazionali.

Due voci narranti si alternano, con progressione cronologica, nei capitoli di 24 volte. Una è quella “in presa diretta” di Adrien P, il nipote di Gabriel, che porta il peso di un’eredità di spessore con cui, volente o nolente, deve fare i conti. L’altra è la “voce fuori campo” che descrive le diverse fasi della vita di un uomo in grado di incarnare i progressi, tecnici, artistici  e soprattutto sociali di un’arte in continua evoluzione.

Come le immagini sullo schermo sono sempre in continuo movimento, anche Gabriel non rimane statico. Viaggia per lavoro, viaggia per trovare una maggior comprensione di sé, viaggia per non soffermarsi sugli interrogativi relativi alla sorella: “Quanti anni avrebbe oggi Hélène? Come avrebbe reagito a questi grandi eventi? A quale età sarebbe morta? All’età giusta? e qual è l’età giusta per morire?”

Anche Adrien viaggia per lavoro. Analizza e recensisce i dispositivi generati dalle nuove tecnologie. Va alle fiere di settore, valuta le nuove uscite della “nota marca di dispositivi che inizia con la A”, oppure i devices di quel “marchio che inizia con la S” e ancora collabora attivamente con i responsabil dei social media internazionali, soprattutto “quello che inizia con la F”, uno dei primi. In sotanza Adrien P. svolge un lavoro che detesta, a differenza dell’altra occupazione a cui si dedica a tempo perso: il romanziere.

Suo nonno, nel medesimo periodo di crescita, immortalava su pellicola i funerali dei grandi attori, realizzava i cinegiornali e prendeva decisioni fondamentali come trasferirsi a Città del Messico dove avrebbe incontrato, in maniera del tutto imprevedibile, la trapezzista di un circo francese; proprio quella donna che poi sarebbe diventata la sua compagna di vita ossia la nonna di Adrian. Il paragone è quasi schicciante nei confronti della voce più giovane. Da un lato una vita mai banale del nonno, fatta di arte e di curiosità verso il mondo, dall’altro lato la prostituzione di una penna dalle grandi potenzialità ma al servizio della tecnologia globalizzante.

Negli ultimissimi capitoli le due voci andranno a sovrapporsi. Il resoconto della storia di Gabriel arriverà a giorni attuali di Adrien. Nonno e nipote saranno insieme nello stesso momento storico e si confronteranno offrendoci così il concetto dell’eredità umana della famiglia P.

Ma alla fine qual è quest’eredità che Raphaël Meltz ci vuole mostrare? È la verità? Perché la pellicola filma impietosamente ciò che ricade sotto il suo raggio d’azione. Oppure è una menzogna? Perché chi sceglie cosa filmare orienta qualunque racconto in un senso o nell’altro: “filmare è metire”. Allora ci viene offerta forse l’eredità di una verità spezzettata 24 volte? Perché 24 è numero delle immagini al secondo consentito dalla velocità di scorrimento delle cineprese moderne. Oppure l’autore ci vuole confessare l’epilogo di una verità che non esiste più? Sono in molti, infatti, a sostenere che il cinema, in senso stretto, è morto poco prima dell’arrivo del digitale. Così come, seguendo un ragionamento simile, la Letteratura sarebbe morta circa trent’anni fa, con gli ultimi grandi romanzi indipendenti di cui tutti si ricorderanno per sempre.

Dopo aver vagliato i differenti segnali sparsi all’interno del romanzo, qual è dunque la reale eredità di questa famiglia intrecciata con il grande racconto del Novecento europeo?

La verità di Gabriel, di Adrien ma soprattutto la verità di Monsieur Meltz risiede nella distanza, più esattamente nella ricerca della comprensione della distanza.

Si tratta di una distanza che i protagonisti, non solo l’autore, provano a raccontare anche con le immagini. L’intera storia  della famiglia P non è altro che il (cine)racconto di come il tentativo di colmare le distanze possa rappresentare la verità dell’esistenza.

Adrien cerca di colmare la distanza artistica ed umana fra sé e il nonno. Gabriel percorre la distanza delle immagini in movimento in ogni sua tappa, da quando ha iniziato, filmando sua sorella nel corridoio casalingo di un sobborgo parigino attraverso una pellicola, da sviluppare, fino al digitale cotto e mangiato dei suoi ultimi giorni di vita. Tutta la famiglia, non solo il protagonista più anziano, cerca di colmare e comprendere la distanza tra la (per sempre) piccola Hélène e la vita che avrebbe potuto essere.

Proprio questo spazio, sia temporale che fisico, è il vero protagonista dell’acattivante finestra sul mondo contemporaneo che ci viene raccontata. Uno scorcio stratificato che convince il lettore più di quanto qualunque sinossi potrebbe mai fare. Meltz è un autore navigato e smaliziato. I rimandi alla Storia, alle tendenze ed al popolare nell’arco del ‘900 sono ponderati, ammiccanti ed incisivi. Lo stile con cui ci presenta questa famiglia melanconicamente attiva risulta ficcante e stimolante, perché ci viene mostrato con un linguaggio che si pone a metà fra l’ironia di un Jourde (per rimanere in casa del catalogo di Prehistorica Editore) ed il sarcasmo di un Carrère.

Nel testo troverete frasi degne di essere ricordate o sottolineate, per chi ha questo vizio. Fra le non poche espressioni degne di nota, vi imbatterete anche nel concetto: “Il film non comincia: è. Semplicemente”. Indicando così l’idea che nel cinema non esiste un inizio ed una fine. Esiste una telecamera fissa su ciò che accade. Il racconto per immagini in movimento sarebbe stato scoperto, non inventato. Successivamente troverete, fra le altre, una riflessione ancora più di spessore relativa invece a chi viene ripreso: “Potete scegliere di dirigere il vostro sguardo dove volete. Nessuna macchina da presa sarà più forte del vostro sguardo. Nessuna mai”.

In sostanza Meltz non vuole svelarci una presunta verità esistente davanti alla cinepresa. Il suo lavoro letterario non è altro che il resoconto della distanza che c’è fra il nostro sguardo (cinematografico o meno) e ciò che conevenzionalmente identifichiamo come realtà. La differenza, però, è che lo scrittore francese prova a rendercene partecipi ben 24 volte al secondo e con uno stile evocativo che invece travalica, a più riprese, sia lo spazio che il tempo.

Appalusi in sala.

Buona cine-lettura!

 

Raphaël Meltz, “24 volte la verità”, Valeggio sul Mimcio, Prehistorica Editore, 2024.

Titolo originale: 24 fois la vérité

Immagine by Francesco Bordi © tutti i diritti riservati 

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