“Sesso e filosofia”: riflessioni di un regista iraniano sulla passione.

di Martina Lacerenza

Interrogarsi sull’amore o sulla natura della passione è l’istinto condiviso da chi, ad un certo punto della vita, decide di fare i conti con la propria felicità: nel senso letterale di ‘contare’ i minuti del tempo passato per quantificare quelli trascorsi in modo felice mentre si amava qualcuno. È da questo particolare punto di vista che incomincia il film del regista iraniano Mohsen Makhmalbaf, “Sesso e filosofia”: una riflessione ispirata sulla passione amorosa e sul fascino senza spiegazioni della vera bellezza. John, il protagonista, nel giorno del suo cinquantesimo compleanno si aggira solitario per le strade di una città post-sovietica, con il cruscotto della macchina pieno di candele, quando decide di incontrare nella scuola di danza dove insegna le quattro donne più importanti della sua vita, che ha amato e che forse ama ancora. Lo fa perché vuole cercare di capire il tipo di amore che quelle donne gli avevano suscitato: il perché la passione si fosse accesa e poi spenta. Per ricordare tutto questo danza con loro, ripercorrendo le storie con in mano un cronometro che raccoglie i secondi di felicità che è riuscito a vivere. Quattro storie, quattro incontri casuali che in realtà servono a mostrare le inquietudini del protagonista e del suo malinconico vagare mentre cerca una risposta definitiva, una spiegazione finale in grado di individuare il senso implicito dell’amore, nelle sue sfumature più ricorrenti.

Sbaglia chi considera i luoghi comuni sulla passione presenti nel film come un limite del regista: ogni scena, immagine e riflessione è meditata e rientra nella costruzione della natura sfuggente e concettuale del racconto, difficilmente contestabile nei simboli e nelle metafore che lo racchiudono. Allo stesso modo inganna il titolo: non c’è sesso se non a livello simbolico nelle mani che si sfiorano, così come non c’è filosofia affidata alle parole, nonostante la parlantina incessante del protagonista. Tutto viene sostituito dai colori, dall’atmosfera umida e piovosa dell’autunno, dalla neve vista dal cielo che ricopre le case e da immagini che seguono un percorso dove non c’è spazio per l’interpretazione puramente razionale, sebbene le intuizioni del regista siano in ogni momento estremamente concrete e (quasi) in tutto verosimili. Il ruolo principale è per questo affidato alla musica che attraversa il film dall’inizio alla fine, particolare come le candele consumate lentamente che aprono e chiudo il racconto, a probabile eco del destino della passione amorosa presente nella mente del regista.

È un film a forma di rosa, concettuale e simbolico, specchio di un pensiero recitato per offrire un’immagine del mondo iraniano non necessariamente confinata ai temi dell’urgenza sociale presente nel Paese. L’opera è infatti soprattutto, ma non soltanto, una lettura lucida dell’amore, spinosa e unica nella produzione corrente perché ispirata ad aprire squarci di sincera ironia sulle fissazioni meccaniche di chi ama e di chi, invece, non è capace a farlo.

Il finale, con una delle quattro donne che coinvolge John nella stessa situazione poco prima da lui creata, istiga lo spettatore quasi alla fuga di fronte all’inequivocabile conclusione cui il regista vuole giungere: l’intenzione di immortalare in una sensazione precisa qualcosa che, in fondo, non ha bisogno di spiegazioni.

 

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