di Francesco Bordi
La storia c’è ed è innegabile. La ricostruzione delle atmosfere americane ed europee anni ’50 e ’60 è verisimile e stimolante. Allo stesso modo è tangibile il fascino crescente della protagonista Elizabeth “Beth” Harmon, puntata dopo puntata, anche qunado giunge ai momenti più bugli del suo percorso.
Sono dunque solamente questi gli elementi che hanno determinato il grande successo della serie “La regina degli scacchi”?
Una serie partita quasi in sordina, almeno in Italia, per esplodere poi, nel giro di poche settimane, in un boato di consensi. La stessa vicenda editoriale del libro da cui è stata tratta la serie dimostra che l’affermazione di “The Queen’s Gambit” targata Netflix non era assolutamente prevista. Al momento in cui scrivo infatti le poche copie in giacenza del romanzo scritto da Walter Tevis e pubblicato nel 1983 sono ormai esautite. Voci di corridoio suggeriscono un imminente cambio di editore e dunque di diritti sul titolo. Ad ogni modo se davvero fosse stato prevedibile il grande consenso delle sette puntate create da Scott Frank e Allan Scott, noi avremmo trovato in libreria, già qualche giorno prima del debutto in piattaforma, la nuova riedizione de “La regina degli scacchi” correlata con la classica striscia in copertina: “Il libro che ha ispirato la popolare serie Netflix” o strilloni equipollenti.
La vera domanda però, a mio avviso, non è tanto il perché del successo, quanto, più che altro, perché non è stato previsto. Stiamo parlando di una serie ben scritta, dallo svolgimento piuttosto lineare che non si presta a caotici fraintendimenti e che si focalizza su una caratterizzazione centrale molto forte. Questo già basterebbe, ma la differenza è data effettivamente dal vero grande protagonista di tutto e di tutti: il gioco degli scacchi nel suo paradigma più trasversale.
Chi vi scrive non è un fine giocatore di scacchiere. Conosco la struttura e le regole base ed ho giocato qualche partita, ma posso dire con buona dose di certezza che la gestione dei pezzi sul quel quadrato antico può affascinare chiunque perché la strategia che viene utilizzata è sempre dentro ognuno di noi. Gli scacchi infatti sono “IL GIOCO” per eccellenza. Possono essere interpretati in maniera violenta, in maniera estrosa, in modo difensivo o ancora con un fare autolesionista. L’avversario è di fronte. Gli occhi si spostano dai pezzi sul riquadro e poi sugli occhi di chi sta davanti. Una danza di sguardi che non devono far tradire nulla del propro pensiero, una danza che parte lenta per divenire poi nervosa fino a che non ci si alzerà, a volte mentalmente sfiniti, dalle due sedie o per meglio dire dalle due postazioni.
La tecnica di gioco espressa nella scacchiera talvolta può essere anche molto aggressiva, tanto da tendere alla totale umiliazione dell’avversario. Alcuni studiosi di settore hanno persino ipotizzato che la violenza espressa durante alcune partite di scacchi sia nettamente superiore a quella che scaturisce nel corso di un incontro di pugilato. Non è un caso, in tal senso, la presenza di veri e propri incontri di “Chessboxing” a partire dal 2003.
Senza sfociare in tali estremismi credo tuttavia che non sia fuori luogo affermare che nel bene o nel male una certa dose di strategia fa parte di tutti noi nella nostra vita. C’è emozione ed un po’ di strategia nei primi appuntamenti, così come nelle partite degli scacchi quando ci si siede davanti ad un nuovo avversario. C’è un po’ di strategia nell’ambito lavorativo quando ad esempio nel commercio si fanno degli acquisti sulla base di un diverso approccio tra acquirente e venditore, scontistiche e premi, ordini e regali omaggio. Negli scacchi allo stesso modo si sacrificano pezzi su pezzi per arrivare al risultato finale. Ancora la stategia della conquista di un qualunque obiettivo passa spesso per percorsi e approcci mentali più o meno raffinati così come la saccchiera è campo di sfida per chi vuole vincere la partita, o vuole arrivare ad una “patta” ossia ad una soluzione di pareggio o ancora per chi, nei casi più critici, vuole solo dar prova della propria abilità e della propria tenacia fino alla fine pur sapendo quasi certamente che perderà.
In questa riflessione non c’è alcuna critica di comportamento. È evidente che nella socialità la via più sana passa per un approccio più genuino, privo di sofisticazioni e stratagemmi, ma è altrettanto evidente che un po’ di strategia è presente in dosi differenti in ognuno di noi, magari anche in maniera inconsapevole. A volte stiamo gocando una partita a scacchi, a volte siamo solo sistemando i pezzi per fare vedere che abbiamo tutte le pedine a disposizione. Oppure ci proteggiamo ad oltranza come si fa per il re, o ancora non siamo mai disposti a sacrificare la nostra regina. L’esitazione mentale prima di una mossa fa parte del genere umano, ma il lato negativo di questo discorso è l’eterna partita a scacchi che giochiamo contro noi stessi. Spesso facciamo mosse e contromosse nei confronti del nostro cervello, contro il nostro cuore. Spesso sappiamo già che perderemo, ma ci ostiniamo sempre con le medesime “aperture”, sacrifichiamo sempre gli stessi pezzi e a volte non capiamo se abbiamo vinto o abbiamo perso.
Beth ama gli scacchi perchè sul quel riquadro lei ha il controllo su tutto e sa anche che se vince o se perde sarà solo suo il merito o sua la colpa. Ma questo è valido solo se si gioca contro un altro avversaio. Cosa accade, nella vita, quando si gioca contro se stessi…?
E voi per chi utilizzereste il “Gambetto della regina”?
Buona visione!
“La regina degli scacchi”
Titolo originale: “The Queen’s Gambit”
Netflix © tutti i diritti riservati
Foto di Francesco Bordi durante la riproduzione su schermo.
Leave a Reply
Your email address will not be published. Required fields are marked (required)