di Marco Maresca
Ricordo la spiaggia come l’ombra delle quattro case dei pescatori. Un’ombra incrollabile, incurante del sole, perché splendeva sempre, di giorno e di notte. La spiaggia era una mano di Dio per quella gente semplice. Era l’ultima speranza prima dell’infinito. Il suo potere più grande era quello di rassicurare gli uomini e le donne sulle intenzioni del mare. Come un ventre di madre, di là del quale c’è l’ignoto.
Camminavo spesso sulla spiaggia di Brancaleone. Le quattro pareti della mia stanza diventavano insostenibili già dal primo mattino. Persino scrivere mi pesava. E allora lasciavo tutto e andavo lento verso il mare. Lo osservavo, dimenandomi nella sua immensa inutilità. Quello che per altri era la vita, pure se condita di laceranti possibilità, per me era inutile e tedioso. Eppure passavo buona parte delle mie giornate – e delle mie nottate – a passeggiare nella marina. A osservare con attenzione di poeta tutto quello che vi succedeva.
Ricordo, soprattutto, le madri coi loro figli. E gli schiamazzi, e le risa, e i silenzi. E gli sguardi, e le mani protese, e le mani operose. Ricordo i pianti disperati che si spargevano tra le piccole onde della risacca rendendo muto il loro petulante infrangersi a riva. Ma più di tutto ricordo gli occhi delle madri, che tanto avrei voluto guardare con occhi di padre. Ingenuamente pensavo che se solo avessi avuto un figlio sarei anche potuto restare.
Ogni mattino era una sconfitta sempre più difficile da sopportare. Il mattino era il segno di un nuovo giorno da trascorrere ancora a Brancaleone. Nelle notti insonni cercavo di non pensare che sarebbe presto arrivata l’alba, un’altra alba, uguale alla precedente e a quella a seguire, e che come ogni alba avrebbe portato con sé un nuovo giorno. Uguale al precedente e a quello a seguire, bambini e occhi di madre e piccole onde e mare inutile compresi.
Ricordo le case che si spingevano, come rampicanti, sino al confine della spiaggia. Ogni sera, da una o due delle finestre accese verso l’orizzonte giungevano le deboli voci assonnate dei bambini che si preparavano ad andare a dormire. Ascoltavo e sorridevo, pensando alla fragilità di quei piccoli corpi ormai quasi affrancati dalle fatiche della giornata.
Ogni sera cercavo il confine tra cielo e mare. Cercavo e pensavo alle madri di quei piccoli corpi, madri attente, premurose, ansiose di mettere a letto i loro figli, desiderose del silenzio profumato della loro casa per ritrovare la loro quotidiana voglia di fare l’amore. Dopo un po’ mi alzavo, senza averlo trovato quel confine. Lasciando le finestre delle case a spegnersi, una ad una. E le madri a essere nuovamente donne.
Ricordo che infine presi la mia decisione. Nel cielo della sera che tutto ammutolisce con la sua cappa scura, in quel cielo senza stelle steso sopra un mare senza riflessi, chinai la testa in segno di resa e scrissi al duce. Implorai la grazia. L’ottenni. Tornai a Torino. Ma non fui mai padre.
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