di Fabio Migneco
Reduce dagli apprezzati e pluripremiati Election, A proposito di Schmidt e Sideways, Alexander Payne continua ad essere fedele alla sua idea di un cinema agrodolce, che attraverso i suoi ben delineati protagonisti racconti spicchi di vite che presentano il suo punto di vista sul mondo e sulle cose della vita (con un risultato per certi versi simile alla filmografia di Cameron Crowe ad esempio). Questa volta sceglie di adattare il romanzo di Kaui Hart Hemmings, una storia che gli permette di toccare molti argomenti e di parlare di famiglia, di radici e origini, ma anche del coma e di come si può reagire ad esso, mostrando allo spettatore le miserie, i dubbi e i tentativi di cambiamento di un uomo comune, costretto a fare i conti con la perdita e il tradimento della moglie, due figlie in età problematiche, un enorme lotto di terreno selvaggio avuto in eredità in quell’angolo di paradiso che sono le Hawaii, dove però si vive, soffre e muore allo stesso modo del resto del mondo. Dà vita a Matt King un bravissimo George Clooney in una eccellente performance (ma non c’è da stupirsi più di tanto, a parte qualche scivolone a inizio carriera raramente ha sbagliato un film), che gli è valsa il Golden Globe e che potrebbe portarlo all’Oscar, stavolta da protagonista (dopo quello come non protagonista per Syriana), piena di sfumature e pezzi di bravura, puntualmente esaltati dalla regia, altrove fin troppo anonima, di Payne. Attorno a lui un gruppo di ottimi caratteristi come Matthew Lillard nei panni del fedifrago, la vecchia gloria seventies Robert Forster (rilanciato da Tarantino anni fa con Jackie Brown, nel quale era straordinario nella parte di Max Cherry) e Beau Bridges, fratello di Jeff, qui uno dei cugini del protagonista, che cercano di convincerlo a vendere la terra al miglior offerente. Soprattutto brillano per umanità e credibilità Shailene Woodley e Amara Miller, nei ruoli delle due figlie di King Clooney, tanto da tenergli testa più che egregiamente in diverse scene, come da copione.
Il sospetto che Payne sia fin troppo furbo oltre che bravo, che faccia questi film con quel certo calcolo per piacere all’intellighenzia, hollywoodiana e non, c’è sempre, questo va detto. Però non gli si può non riconoscere la capacità di creare empatia tanto con i suoi personaggi quanto con i suoi spettatori. E se qualche paraculata da classico cinema indie (mitigata da un tono misurato e nonostante tutto autentico in più punti) porta a risultati come questo allora gli auguriamo di essere così ispirato anche negli anni a venire.
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