di Ornella Rota
MILANO. Il 17 ottobre, all’Art Gallery Arena (nella via omonima), l’artista inaugurerà una “personale” con una trentina di quadri, da “Cafè Bar” del 1978 a “Breaking news” dell’estate scorsa.
Nelle tue opere più recenti la juta e ancora più sovente la carta di giornale sostituiscono la tela. Perché, e quali specifici vantaggi?
I materiali naturali mi aiutano a trasmettere sensazioni, a esprimermi con il colore, anche a esorcizzare la tela bianca. Mi piace ricordare i materiali utilizzati da Burri o il pensiero gestuale di Baj.
In particolare la carta di giornale allude a un certo tipo di informazione distorta, ridondante, che ci martella di notizie e di ricostruzioni urlate da fazioni contrapposte. Una sorta di perenne intreccio fra accuse e difesa, tesi e antitesi. Ma potremo conoscere la realtà, almeno a grandi linee, solamente se siamo capaci di sintesi.
Dell’ ingorgo mediatico noi siamo destinatari e vittime; ognuno di noi tuttavia può staccarsi dallo sfondo e diventare protagonista. E’ il significato dei tratti decisi con cui sovente scontorno le figure.
Anche i tuoi colori vivono di accostamenti e manipolazioni, alterazioni, commistioni
Prediligo il nero e il rosso, le loro infinite tonalità. Sicuramente percepisco il rosso come passione mentre il nero mi permette di evidenziare, circoscrivere. Ripensandoci adesso, mi accorgo di non avere quasi mai usato il marrone e il viola.
Direi che i miei colori vivono di intrecci, come i miei personaggi; non a caso nella realtà della nostra epoca tutto si somma si affianca e interagisce. Sono persuaso che riusciremo a progredire solamente se saremo capaci di integrare elementi diversi, per non dire contrapposti. Anelo a un mondo culturale che sia finalmente molteplice e armonioso.
I tuoi maestri ideali?
Sono sostanzialmente un autodidatta. Cominciai negli anni ‘70 dipingendo alberi; mi incantava il gioco dei rami, delle radici. Poi ci fu una lunga serie di scampoli di vita. Persone di ogni età ed estrazione sociale, e incontri, scontri, emozioni, passioni, soprattutto il movimento dei loro corpi, la fusione. Utilizzavo i colori per raccontare i movimenti, tinte per lo più forti che potevo modificare al pari dei personaggi. Ammiravo Pollok, De Kooning, anche Kandinskj e il movimento pittorico Der Blaue Reitor (il Cavaliere Azzurro); Maestri che rimasero anche negli anni successivi, quando lentamente ma inesorabilmente virai verso l’astratto, molto più consono a raccontare il nostro tempo. Negli anni ’90 una pausa lunga fino agli inizi del 2000; riprendendo tele e pennelli mi resi conto di essere, nel frattempo, molto cambiato, perché il mio punto di riferimento era diventato l’espressionismo, soprattutto tedesco: Kirkner, Jorge Grosz e James Ensor, in italia Morlotti e Migneco.
Un filo conduttore, fra i vari periodi della tua evoluzione artistica?
La necessità di fare emergere le realtà umane più intime e profonde. Secondo me la pittura deve spronare alla conoscenza, prima di tutto di se stessi; è come se la mia mano che dipinge fosse un prolungamento della mia interiorità, la facesse venire alla luce. E credo sia questo il presupposto per cercare di comunicare con gli altri.
Protagonisti delle arti figurative a parte, mi dici due nomi che sono stati molto importanti per la tua formazione e che oggi lo sono per capire la tua pittura?
Pirandello e Kafka: il primo per la ricerca dell’identità profonda dell’essere umano che è continuamente in divenire, il secondo perché rappresenta le nostre angosce.
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