Let Them Talk – Hugh Laurie e la musica… House? No, Blues!

di Fabio Migneco

(foto da http://www.facebook.com/photo.php?fbid=190359207648667&set=a.163776790306909.38374.142215112463077&type=1)Questa è la storia di un bambino di sei anni che mal sopportava l’insegnante di pianoforte, la signora Hare, e soprattutto tollerava a malapena i motivetti che era costretto a imparare, tratti dall’Elementary Piano Book One, per lo più ninne nanne francesi o motivetti comici polacchi. C’era una canzone in quel libro chiamata Swanee River, la cosa più vicina al blues che quella raccolta potesse offrire. Il bambino non vedeva l’ora che arrivasse il giorno di imparare quel brano ma, quando accadde, la maestra letto il sottotitolo con la descrizione dello stesso, ovvero “Negro Spiritual – Slightly sincopated”, pensò bene di girare la pagina per tornare a una più rassicurante nenia delle sue. Fu così che il ragazzino perse la fiducia nell’insegnamento formale e tradizionale della musica.

Per sua fortuna, perché col passare del tempo dimostrò di saper padroneggiare le sette note, e di avere un bagaglio artistico e culturale ampio e vario, che tanto gli è servito anche nella sua professione di attore. E forse è anche il caso di sfatare un mito a questo punto. Hugh Laurie, il cinquantenne inglese noto in tutto il mondo per la sua interpretazione del protagonista nel serial tv Dr. House, nasce artisticamente anni luce prima di reinventarsi con la barba di tre giorni, la zoppia e l’accento americano del burbero e geniale diagnosta che tanto piace anche qui da noi. La sua carriera inizia all’università, insieme a nomi del calibro di Emma Thompson e Stephen Fry, Ben Elton e Rowan Atkinson, prosegue con una serie di partecipazioni a film e soprattutto a telefilm molto amati nel Regno Unito, come Jeeves e Wooster, tratto dai libri di Pelham G. Wodehouse, fino alla serie cult di sketch comici più o meno demenziali, A bit of Fry & Laurie, sempre in coppia con l’amico fraterno Stephen Fry, show che li rese due superstar in Gran Bretagna. Proprio all’interno di quello show Laurie dava prova del suo talento musicale, sia canoro che di polistrumentista (suona il piano, la chitarra, l’armonica e la batteria), anche se declinato in chiave comica, con pezzi quali The Protest Song, rifatta di recente nella puntata del Saturday Night Live da lui presentata e ormai diventati cult.

La passione per la musica si è fatta strada anche nelle varie puntate del dottor House, dove non è affatto infrequente vedere il poco ortodosso medico rilassarsi suonando i suoi pezzi preferiti. Parallelamente al suo impegno televisivo nella serie della Fox, negli ultimi anni Laurie si esibiva per beneficenza con altri colleghi di altri serial con i quali aveva dato vita al gruppo Band from Tv.

Visto il successo degli anni recenti era scontato che qualcuno gli desse carta bianca per un album tutto suo, e non è stata nemmeno la prima volta, come lui stesso afferma: “più volte mi hanno fatto questa offerta, ma o non erano maturi i tempi o non lo ero io, adesso invece di pensare solo ai contro mi sono detto perché no? E soprattutto ho realizzato di avere cinquant’anni e non so, potrei essere investito da un bus un giorno o l’altro”.

Così tra il luglio e l’ottobre del 2010 Hugh Laurie è finito in sala d’incisione per il suo album di debutto. E, come tutti gli artisti dotati di acume e sensibilità, oltre che di vero talento (leggete anche il suo romanzo Il Venditore di Armi, scritto molto prima di House, non ve ne pentirete, specialmente se amate l’ironia e le spy-stories) non ha preso sotto gamba l’occasione, realizzando qualcosa di tirato via solo per far soldi, ma ha curato il processo nei minimi dettagli, dando vita a un ottimo album di corposo e robusto blues vecchia scuola, quello che ha sempre amato sin da ragazzino, a dispetto di tutte le signore Hare del mondo.

Let Them Talk, questo il titolo, è un CD d’alta classe, che non finge di essere quello che non è e che vuole essere semplicemente un omaggio ad alcuni grandi del genere e alle sensazioni che questi sono capaci di suscitare. La sincerità è uno dei pregi di Laurie nell’affrontare questo lavoro, come si può evincere leggendo le note contenute nel libretto del CD: “Non sono nato in Alabama nel 1890, ormai lo sapete… in più sono anche un attore… e infrango un’importante regola: gli attori devono recitare e i musicisti suonare. Perché dovreste ascoltare la musica di un attore? La risposta è che non c’è risposta, se è il pedigree che volete, cercate altrove, perché non ho nulla da offrire in quel senso”. In realtà la risposta arriva, alla fine delle note, ed è la più semplice ma anche la più potente che potesse dare: “La mia unica credenziale è che amo questa musica, nel modo più autentico che conosca, e voglio che anche voi la amiate. Se vi arriverà un millesimo del piacere che ho avuto io, siamo a cavallo”.

Prima ancora di parlare dei brani scelti da Laurie per il CD, non si può non citare tutto il viaggio che c’è dietro, alla scoperta delle radici del blues, come testimoniato dal documentario Down by the River, passato a notte fonda su Italia 1 col titolo Dal Dr. House al Blues, reperibile su internet e prodotto, tra gli altri, da Stephen Fry. Un on the road di circa tre quarti d’ora con Hugh Laurie protagonista e narratore al tempo stesso, che fa da Cicerone per lo spettatore guidandolo nel viaggio verso New Orleans, con tappe obbligate a Austin la capitale del Texas e della musica live, dove Laurie si esibisce in una jam-session con Miss Lovelle White, storica voce di quelle zone, o a Beaumont dove in una chiesa battista l’attore tocca con mano la potenza e la gioia, l’energia straordinaria che la musica gospel emana. L’arrivo a New Orleans, dove hanno avuto luogo parte delle sessioni di registrazione del disco (il resto ha avuto luogo nei mitici Ocean Way Recording Studios di Hollywood) è stato per Laurie il coronamento di un sogno. Perché New Orleans è una vera e propria culla musicale, che ha assorbito le influenze più disparate, quella africana e quella francese, il country americano e il gospel, ha rimescolato il tutto e l’ha offerto al mondo con il blues, senza il quale (e sono in troppi a scordarlo) non esisterebbe gran parte del rock classico e di conseguenza della musica moderna. “New Orleans – riflette l’attore – è una città che ha vissuto tanto e ha visto la morte in faccia e ora vive con ancora più forza e fierezza, non è terrorizzata come invece è Los Angeles”. Il resto del documentario ci fa conoscere la band assemblata per l’occasione, Jay Bellerose alla batteria, Kevin Breit alla chitarra, Greg Leisz seconda chitarra, David Piltch al basso e Patrick Warren alle tastiere, più una decina di altri professionisti a dare il loro apporto alle rifiniture, clarinetti, sax, cori eccetera.

Scopriamo così le influenze maggiori di Hugh Laurie, su tutti Professor Longhair, la cui Tipitina è uno dei brani preferiti dell’attore e che doveva per forza trovare un posto nell’album. Ma anche gli ospiti di prestigio, come Irma Thomas, Tom Jones e soprattutto Allen Toussaint, il Padrino della musica di New Orleans, che vediamo alle prese con la sessione fiati per ricercare quel suono particolare che contraddistingue tutta la sua produzione. Il finale è affidato a buona parte della prima esibizione dal vivo in assoluto con le canzoni del CD, una sorta di presentazione dell’album, al club Latrobe’s con tutti i musicisti, Laurie in testa, vestiti da gran sera e le tre guest star a suonare e cantare in totale libertà davanti a un ristretto numero di fortunati. Ed è qui che Hugh Laurie realizza, lui che tende sempre a schermirsi e a minimizzare ciò che fa, quello che è riuscito a mettere in piedi: “Sono onorato di aver preso parte a questo progetto, se un qualsiasi adolescente di ovunque esso sia scoprirà musica come questa grazie a questo cd, scoprirà gente come Professor Longhair, Dr. John Henry Buckler, James Buckler e gli altri, sarebbe una cosa stupefacente e ne sarei orgoglioso e onorato”. Non si può non applaudire l’uomo che ha realizzato i suoi sogni di bambino, quando in voce fuori campo sentiamo i suoi pensieri: “sono a New Orleans e suono. A New Orleans, con quei tre. E suono Tipitina, e mi devo dare un pizzico, sul serio. Forse questo è il Paradiso, forse mi ha davvero investito un bus… Manca solo quel momento che ti cambia la vita. Ma non tarda ad arrivare… eccolo, o mio Dio, lo vedete?” L’immagine si ferma e c’è Alain Toussaint che alla fine di Tipitina indica Laurie davanti ai presenti, in chiaro segno di approvazione e orgoglio, per quello che l’attore definisce “l’equivalente musicale di una benedizione papale, ora sono in estasi, posso morire felice”. Probabilmente quel momento ha davvero cambiato la vita a Hugh Laurie, che da allora dichiara di essere totalmente soddisfatto di aver aperto questa nuova porta nella sua carriera e di stare seriamente pensando col tempo di abbandonare la recitazione per dedicarsi a tempo pieno alla musica “e’ qualcosa che ho sempre pensato, non ho mai creduto che avrei fatto l’attore per tutta la vita, il mio sogno è sempre stato quello di finire i miei giorni suonando, anche da perfetto sconosciuto, suonando in qualche club di Lisbona dopo il tramonto, tutte le sere. Non so nemmeno perché Lisbona, non ci sono mai stato finora, ma è così che me lo sono sempre immaginato”.

Vediamo in dettaglio come si compone il CD, le cui fila sono state tirate per tutto il tempo della realizzazione e oltre da colui che Laurie definisce “la mia guida, il mio Obi-Wan”, ovvero Joe Henry, cantautore e in questo caso produttore per conto della Warner Music, l’etichetta che ha pubblicato il disco lo scorso marzo (maggio qui in Italia).

Si parte con St. James Infirmary, che ha una lunga intro strumentale e che è uno dei tanti brani tradizionali scelti da Laurie, la cui versione più nota è(foto da http://www.facebook.com/photo.php?fbid=142215375796384&set=a.153659664651955.35394.142215112463077&type=1&theater) probabilmente quella registrata da Louis Armstrong nel 1928. You don’t know my mind, di fatto il primo singolo del CD, è uno dei pezzi più trascinanti, composta in origine da Clarence Williams, Sam Gray e Virginia Liston, arrangiato da Huddie Ledbetter, altra leggenda del genere. Six Cold Feet, uno dei tanti brani che flirtano con la morte, concreta o metaforica, è un grande classico di Leroy Carr, dal testo e dalle implicazioni lugubri ma che non mancano di dare gioia tanto a chi lo ascolta che a chi lo esegue. Buddy Bolden’s Blues è una sorta di canzone-simbolo, registrata per la prima volta da Jelly Roll Morton, dedicata al mito di Charles “Buddy” Bolden, uno dei possibili padri del jazz, se non il padre, e ben descrive le atmosfere funky del calore delle performance live di Bolden. Altro brano tradizionale la cui paternità è eterno oggetto di disputa è Battle of Jericho, che Hugh Laurie esegue in una versione in crescendo di sicura presa sull’ascoltatore, mentre After You’ve Gone, che vede la partecipazione di Dr. John, viene da una versione del 1928 di Bessie Smith. Swanee River, il pezzo bramato dal piccolo Hugh fu composto da Stephen Collins Foster e Ray Charles e la versione del cd è abbastanza energica da rendergli omaggio e da suonare potente e tiratissima nelle sue versioni dal vivo. The Whale Has Swallowed Me di J. B. Lenoir vede Laurie ampliare le sue capacità vocali, fino a raggiungere un timbro più che convincente che ben si sposa con la bravura tecnica sua e dei suoi musicisti. Ancora repertorio classico con John Henry, arrangiata da Peter Chatman e Police Dog Blues di Arthur Phelps, fino ad arrivare a Tipitina, l’oscura hit d’epoca amatissima dall’attore e Winin’ Boy Blues di Ferdinand Joseph Morton. Chiude l’album una tripletta da urlo composta da They’re Red Hot di Robert Leroy Johnson, in una divertente e divertita versione sincopata di Hugh Laurie che si sente si è divertito moltissimo a cantare; Baby, Please Make a Change, composta da Mississippi Sheiks e impreziosita qui dall’interpretazione di Sir Tom Jones, che nel documentario non ha potuto fare a meno di lodare Laurie e la sua bravura tecnica, con un stile boogie-woogie al piano, che inizia piano e poi lo vede scatenarsi “alla Jerry Lee Lewis” (si ha detto proprio così, facendo felice il me stesso di sette-otto anni che, chissà poi perché vista la tenera età, vedeva più volte in vhs Great Balls of Fire con Dennis Quaid nei panni di Lee Lewis); e per finire la title-track Let Them Talk, di Harry A. Carlson, Lew Douglas e Erwin King, eseguita da Hugh Laurie in una versione intimista la cui atmosfera funge da perfetta chiusa di un album con pochissime sbavature.

Non un capolavoro, ma sicuramente un ottimo disco, con una manciata di canzoni che si lasciano ascoltare più e più volte e trascinano l’ascoltatore in un’atmosfera magica com’è quella del blues di New Orleans e poco importa se a portartici non è un afro-americano, ma un inglese di mezza età con una calvizie incipiente (si signore, quelli di House sono capelli finti se non lo sapevate!) che non ha certo vissuto la vita disastrata e piena di sofferenze dei veri bluesman d’epoca, ma quella agiata di un figlio della media-alta borghesia prima e di una star dello spettacolo poi. Anzi, non importa proprio nulla, perché ciò che conta è che Hugh Laurie per fare questo disco ci ha messo l’anima, il cuore. E la sua passione trasuda da ogni piega, da ogni solco di questo disco, fino ad arrivare alle orecchie di chi lo ascolta cosa davvero non da poco in tempi di dischi sempre più usa e getta, che si dimenticano dopo il primo ascolto. Il fatto che anche la voce stessa di Laurie non sia quella cavernosa del classico cantante blues e il suo accento sia ancora una volta quello all american di House non intacca la riuscita complessiva del lavoro, perché appunto là dove non arriva la tecnica arriva la passione e il divertimento che questa produce e tutti gli eventuali limiti, comunque molto pochi e riscontrabili solo da un orecchio attento e solo dopo molti ascolti, sono smussati dalla perfezione tecnica del prodotto, assicurata da una major come la Warner, dal solido gruppo di musicisti che ha suonato e da professionisti quali Ryan Freeland, che ha registrato e curato il suono e il missaggio dell’intero disco e che ha già vinto nella sua carriera ben tre Grammy.

Una volta uscito l’album, che in questi mesi è stato con buon successo in classifica in tutta Europa (con vette forse inaspettate come il primo posto nella classifica argentina e in quella austriaca, ma anche il secondo in quella inglese e francese o l’ottavo in quella tedesca), Hugh Laurie e i suoi hanno spolverato l’abito buono e iniziato una piccola tournée in luoghi prestigiosi come Le Trianon a Parigi. I video delle esibizioni (dal Cafè Keese di Amburgo alla Passionkirche di Berlino, dal Cheltenam Jazz Festival alla Union Chapel della sua Londra fino al Royal Northern College of Music di Manchester) tutte sold-out, sono visibili insieme a quelli delle ospitate promozionali di Laurie e della band (in programmi come Vivement Dimanche, Graham Norton Show, Tonight Show e altri talk televisivi e radiofonici) su YouTube, a testimonianza di quanto questo album funzioni, specialmente dal vivo.

(foto da http://www.facebook.com/photo.php?fbid=164581683559753&set=a.164581543559767.38581.142215112463077&type=1&theater)La popolarità dell’attore ha fatto sì che l’album avesse la giusta visibilità, conquistasse copertine di tutto rispetto, su magazine come Culture del Sunday Times o persino riviste del settore come Guitar Aficionado e altre, e che la promozione fosse fatta in grande stile, non solo per la serie di concerti, lo speciale televisivo sulla sua realizzazione e lo spazio offertogli dai vari media, ma anche per quanto riguarda l’album stesso presente sul mercato internazionale in più versioni, da quella limitata in vinile a quella speciale contenente un libretto di una cinquantina di pagine con foto dietro le quinte e brevi interventi sulla storia delle canzoni, nonché tre brani in più rispetto alla versione standard, per un totale di diciotto tracce: Guess I’m a Fool, distribuita gratis via mail a chiunque si iscriveva alla newsletter del sito hughlaurieblues.com, It Ain’t Necessarily So, altro brano che ha avuto mille versioni nel corso degli anni, comprese quelle di Aretha Franklyn e Cher e infine Lowdown, Worried and Blue. Ma spulciando bene i video su YouTube si possono trovare altri due brani registrati da Laurie che non hanno avuto l’onore di essere pubblicati su cd, pur essendo assolutamente all’altezza: Crazy Arms e una cover di un notissimo brano di Ray Charles, Hallelujah I Love Her So, entrambi comunque eseguiti dal vivo in quasi ogni esibizione del piccolo tour, che per il momento è solo in pausa (l’attore attualmente sta girando l’ottava e forse ultima stagione di Dr. House) e riprenderà a data da destinarsi, ma in alcune interviste Hugh Laurie dichiarava di volere fare almeno una tappa in Italia. Siete avvertiti, basta dare un’occhiata on-line per farsi un’idea e capire che sarebbe un vero peccato perdersi uno show di tale finezza e talento.

Per maggiori info sull’artista:

http://it.wikipedia.org/wiki/Hugh_Laurie

http://en.wikipedia.org/wiki/Hugh_Laurie

Per maggiori info sulla sua biografia:

http://www.hughlaurie.net/

Per maggiori info “ufficiali”:

http://www.hughlaurieblues.com

Per maggiori info sul fan forum:

http://housemd-italianforum.forumfree.it

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