di Francesco Giovannelli
(© tutti i diritti riservati)
La prima è facile,
un tocco ad una chiave e la sola volontà del movimento.
Il vento prende fiato, la strada si avvicina
e scorre opaca la promessa di una nuova meta,
come tutto,
generata alla partenza.
Non dura molto,
cede presto al proprio incedere violento,
per sciogliersi in respiri già più lunghi
eppure persi al solo ritmo del presente.
E come un imbarazzo di cui non si ha memoria,
così la seconda arriva e inciampa
dai bordi lenti e acquosi della mente;
mossa anonima e distratta, forse
oppure infida come un silenzio di vendetta.
La potenza si fa forma, la promessa un’abitudine
e il mistero del processo
nella tela dei passaggi che scolorano.
Poi il motore anela a un picco di sollievo,
e il morso sulla strada
si apre appena a un gesto di clemenza.
La terza, come un sussurro nel baccano
a dare lustro alla fatica
nell’assenza, breve
di una necessità più impellente e risoluta.
Quasi come il premio ad uno sforzo,
pensiero cullato nell’attesa,
le ruote adesso staccano da terra
offrendo il corpo a un sogno ebbro di orizzonte.
È così che inizia il viaggio, finalmente
quando al sibilo del vento non si aggiunge,
né si toglie, altro volume.
La quarta scivola nel tempo
poi nel vuoto di un pensiero già distratto
da un traguardo, ormai, più vero
ad ogni giro accelerato di orologio.
Come in un libro superato per metà,
l’incanto è tratto unicamente dal finale
cui tutto tende, nel pensiero
e nel linguaggio monocorde dell’asfalto.
A volte tuttavia il mondo si interrompe
in brevi stacchi di coscienza più rapace;
tempo denso, senza peso
quindi perso nella mappa del passato.
Tutto questo in fondo all’ultimo ingranaggio,
quinta marcia sul sentiero oltreconfine;
salva d’addio a ricordi diradati
privi di attrito ormai, al pari della strada.
Salto nel vuoto, dunque,
a scrollarsi dall’abbraccio dell’abisso.
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