di Ornella Rota
Personalmente mi auguro che il mondo si evolva verso questa direzione, questa sensibilità, questo destino. Voi?
ROMA. “Casa mia è dentro di me, non l’ho mai sentita altrove”: dice Angelo Sturiale, musicista e artista visuale, cittadino italiano, già ‘compositore residente’ in parecchi Paesi del mondo, da quattro anni a Monterrey, in Messico, preside della Facoltà di Ingegneria in Produzione Musicale Digitale, nonché docente di musica sperimentale e sociologia della musica.
“Casa mia è dove mi dicono buongiorno con un grande sorriso”: dice Christian Bonaparte, consulente minerario, haitiano che vive tra l’Italia e la Tanzania, padre di Port-au-Prince e madre di Bruxelles, moglie italo-etiopica.
“Io mi sento a casa qui a Roma”: dice Rania Hammad, docente di relazioni internazionali e scrittrice (“Palestina nel cuore” e “Vita tua vita mea”, raccolta di testimonianze israeliane per la pace) cittadina italiana nata a Damasco, cultura musulmana e studi in scuole cattoliche, padre palestinese e madre siriana, marito statunitense di cultura protestante cresciuto in America Latina.
Risolta, solare e positiva Rania. Introverso, inquieto e problematico Christian. Di Angelo colpiscono la creatività, la generosità umana, la voracità culturale.
Personaggi esemplari, ciascuno, di quelli che oggi vengono sovente chiamati “nomadi globali”; a metà del secolo scorso, la sociologa statunitense Ruth Useem docente all’università del Michigan li definì “third culture kids” e dedicò a loro decenni di studi e ricerche.
I “ragazzi di cultura terza” provengono solitamente da famiglie di buon livello socio/culturale, con un tasso di divorzi inferiore alla media (perché in una realtà dove trasferimenti e cambiamenti si susseguono, la famiglia diventa inevitabilmente il solo punto di riferimento stabile). Sono per lo più figli di diplomatici, imprenditori, insegnanti, militari, atleti professionisti, giornalisti.
L’incrociare e vivere mondi e realtà diverse durante la fase dello sviluppo segna indelebilmente la visione del mondo, influenza gli stessi processi pensiero e lascia affiorare alcune caratteristiche comuni. Questi giovani, ad esempio, risultano più affini tra loro di quanto lo siano con coetanei magari della medesima nazionalità ma cresciuti in modo tradizionale. Hanno, mediamente, probabilità di laurearsi quattro volte maggiori e durante l’adolescenza appaiono più maturi, mentre dopo i 20 anni raggiungono più lentamente l’età adulta. Conoscono tutti alcune lingue (a cominciare dall’inglese, lingua utilizzata dalla maggior parte delle scuole internazionali), privilegiano le carriere all’estero, si mostrano disponibili ad accogliere e duttili nell’ambientarsi.
Ma si sentono ovunque estranei; il ritorno nel Paese di cui sono cittadini è sovente uno shock, la nostalgia per la patria di adozione è costante. Fra loro, il tasso di depressione e di suicidi è superiore alla media.
Alla St. John’s University, Rania Hammad insegna teoria politica. “Ignorare le varie scuole di pensiero con le relative metodologie equivarrebbe”, riflette, “a osservare il mondo senza sapere di portare occhiali da sole con lenti di diverso colore. Ognuno vedrebbe un contesto diverso credendolo l’unico vero. Essenziale è non scambiare la propria visione del mondo con la realtà del mondo, verificare con quale scuola di pensiero combacino i propri valori _ se sei un liberal o un realista o un marxista o altro. E poi oggi le carte continuamente si rimescolano, tutto è in movimento”.
Anche questo rientra nell’ottica contemporanea, i punti fissi reggono per un certo periodo poi cambiano.
“Una mobilità accelerata dal volume sempre maggiore di viaggi, scambi, affari, commerci, può fare paura soprattutto a chi se ne senta tagliato fuori, in definitiva a chi sia ignorante nel significato classico del termine. Anche per questo non mi stanco di invitare i miei studenti a osservare, informarsi, verificare, sforzarsi sempre di capire le ragioni delle diverse realtà (soprattutto dei loro aspetti negativi). Oggi abbiamo a disposizione talmente tanti mezzi di comunicazione, e ci sono internet, i viaggi. Credo però che, di un qualunque Paese, leggere un paio di buoni libri stando a casa propria aiuti a capire ben più di una vacanza in un villaggio turistico”.
L’aria del mondo, l’hai respirata fin da bambina. Tuo padre, Nemer Hammad (ora consigliere politico di Abu Mazen, dopo essere stato per molti anni a Roma, Delegato Generale della Palestina) è un politico prima che un diplomatico, ed è soprattutto uno storico. Tua madre, Ghada, è intelligente, informata, attenta.
“In casa ho imparato l’amore per i libri, l’apertura verso il mondo, la curiosità, il rispetto. Ho sempre cercato di avere amici anche israeliani ed ebrei, e questo lo devo specialmente a mio padre. Assomiglio alla mamma per i lati del mio carattere che piacciono di più a me e a mio marito: sono affettuosa, positiva, ottimista, come lei”.
Mai sentita spaesata, vivendo stabilmente fra culture diverse?
“Non direi. Credo piuttosto di essere diventata ipercritica. Negli Stati Uniti ad esempio mi irritano una certa superficialità dei rapporti, in Medioriente le continue diatribe fra palestinesi, in Italia una certa diffusa mancanza di professionalità. E così via, mi sembra di essere, ovunque, più incline a notare gli aspetti negativi. Ma a Roma mi sono sentita sempre a casa. Mi basta fare una passeggiata e le meraviglie che incontro mi compensano ampiamente dei motivi di disappunto. Mio marito invece sta forse riavvicinandosi agli Stati Uniti. Fino a qualche anno fa viveva meglio in Europa, specificamente in Italia; adesso lo infastidiscono il caos, il pressapochismo, il traffico … soprattutto una sorta di diffuso pessimismo. I suoi connazionali sono in genere più solari, ottimisti: secondo me anche un po’ superficiali ma probabilmente lo dico perché sono ipercritica, appunto!”
I tuoi programmi?
“Ho un paio di idee per un libro. Un possibile tema è legato anche alla mia esperienza scolastica: com’è cambiata in questi dieci anni la mentalità dei giovani statunitensi. Prima dell’11 settembre, alla domanda “secondo voi viene prima l’individuo o lo Stato”, tutti rispondevano “lo Stato”; adesso tutti rispondono “l’individuo”. Sconvolgente. Già da qualche anno peraltro i ragazzi mi sembravano sempre meno aggressivi, meno sulla difensiva; negli Stati Uniti alcuni familiari dei caduti dell’11 settembre sono addirittura andati in Afghanistan per incontrare i parenti delle prime vittime civili dei bombardamenti americani. Un secondo possibile tema riguarda la comunità dei musulmani in Italia, come si sentono, se si sono integrati, la loro vita, le storie; finora ho scritto di palestinesi e di israeliani ma visto che vivo qui mi pare logico occuparmi anche di questioni italiane. Infine, una casa editrice mi ha chiesto di raccontare un mio ipotetico ritorno in un paese arabo: quali aspetti “esporterei” della cultura italiana e quali, della mia cultura originaria, avevo a suo tempo portato con me”.
Se in Rania Hammad lo stile “nomade globale” ha accentuato il senso critico, in Christian Bonaparte invece la percezione di spaesamento è costante, pur se non necessariamente sgradevole.
Ricorda che da ragazzo lo divertiva e inorgogliva il fatto di appartenere a una famiglia ben inserita nella società belga malgrado non ne fosse originaria. “Da piccolo”, racconta, “avevamo persino una governante fiamminga. I miei fratelli e io ci accorgevamo che la nostra compagnia era molto richiesta, sapevamo di essere un po’ speciali. Ci giocavamo anche un po’… Al liceo no: tutti sul medesimo livello, medesimi doveri e diritti. Tutti uguali. A parte il fatto di essere straniero”.
Cosa vuol dire?
“Che, al contrario di quanto succedeva con gli studenti belgi, erano i buoni risultati a sorprendere. Di eventuali brutti voti, insegnanti e compagni individuano preferivano addebitare le ragioni all’origine etnica piuttosto che, semplicemente, a una ripulsa verso determinate discipline”.
Subito dopo gli studi di giurisprudenza, da Bruxelles voli ad Haiti.
“Quanta paura in quel primo viaggio. Andavo in un mondo anche mio, certamente, ma temevo di non essere capace di scoprirlo.
La famiglia paterna mi accolse molto calorosamente, poi cominciò a insegnarmi a diventare haitiano: lezioni di cultura locale, di comportamento (mia nonna era molto severa, originaria della Corsica), di integrazione familiare e sociale. Dovevo imparare il modo di camminare, di guardare, di vestirsi. In Haiti, ad esempio, come del resto in Africa, le persone camminano con una visuale di 180 gradi, continuamente osservando a destra e a sinistra, quel che sta dietro non interessa. E un pomeriggio di grande caldo, ricordo, mia nonna mi proibì di uscire con degli short che avevo appena comprato: rimasi esterrefatto quando mi spiegò che quelli erano dei pantaloni haitiani, non degli short.
Dovevo imparare tutto, però stavo diventando haitiano. Al rientro in Europa mi muovevo in un altro modo, mi mancavano le amicizie, i tipi di conversazioni, certi buongiorno detti a volte con un grande sorriso altre volte con tono condiscendente. Mi mancava Haiti. E sono tornato”.
Dopo anni, circostanze di lavoro e di vita ti hanno portato in Italia.
“Qui mi sono sentito più vicino ad Haiti che in Belgio, ma il Belgio mi ha aiutato a capire prima l’Italia. La cosa che più mi colpì fu geografia, i paesaggi, la differenza fra le regioni italiani, ogni 200 kilometri sei in una realtà diversa”.
Passa un altro po’ di tempo ed è l’Africa. Intanto: quale Africa?
“Prima un po’ di Africa del Nord, poi occidentale, quindi l’Egitto, il Sudan. Infine il salto nell’Africa profonda, come lo Zambia, il Congo, il Kenia, l’Uganda, o la Tanzania dove abito.
Cercare di comprendere persone e società non mi è difficile; questo mi provoca sensazioni molto belle, molto forti. Ma in ogni Paese provo una sensazione di solitudine. Mi trovo bene, accetto il contesto e ne sono accettato, mi sento praticamente un pesce nell’acqua, eppure continuo a chiedermi se sia il caso di rimanere o di tornare dove abitavo prima e dove egualmente mi trovavo bene, accettavo il contesto e ne ero accettato, mi sentivo un pesce nell’acqua”.
Per Angelo Sturiale invece, vivere in tanti Paesi equivale “a creare una sorta di polifonia di nazionalità. Le dierse esperienze di vita si stratificano; a volte io mi visualizzo come un puzzle di anime composte di tanti colori, suoni, lingue, codici di comunicazione che al momento opportuno si manifestano”.
Nella tua città, Catania, imparavi le lingue già prima della laurea in lettere e del diploma in Conservatorio. Adesso parli inglese, spagnolo, francese, e ti appassionano il sanscrito, il pali, altri idiomi antichi …… come se al percorso lungo le strade del mondo avessi in qualche modo voluto affiancarne uno anche nel tempo. Perché ti affascinano, le lingue?
“Per la straordinaria mobilità e varietà di interpretazioni possibili. I linguaggi sono continuamente in movimento, come la vita”.
I luoghi più significativi per la tua evoluzione, prima del Messico?
“In Romania, dove la miseria e il regime di Ceausescu mi obbligarono a prendere atto definitivamente non soltanto di quanto viviamo bene in Occidente ma di quanto sia irrinunciabile il valore della libertà. Eppure, nonostante i divieti, le rinunce, i filtri, i blocchi, il nazionalismo sfrenato il livello culturale medio dei miei coetanei romeni era molto più alto del nostro.
In Svezia, dove l’ordine, il rigore estetico e visuale, l’efficienza organizzativa, la disponibilità di servizi sociali non allevia la generale freddezza nei rapporti, una sorta di male di vivere individuale che si esprime anche nel consumo di alcol.
In Giappone _ anzi, a Tokio _ dove le dinamiche del posto di lavoro continuano nelle tante riunioni che invece sono dichiaratamente organizzate per rilassarsi, e dove in quartieri giovanili bellissimi, rutilanti e colorati vivono figli di genitori assenti, ossessionati dalla carriera, che sovente li hanno messi al mondo soltanto per dovere sociale”.
Da quattro anni vivi e lavori a Monterrey, Istituto tecnologico e di Studi Superiori: cos’è per te il Messico?
“Intanto, in questo Paese hanno ancora senso concetti come condivisione, compartecipazione, solidarietà, e il modo di comunicare non è mai conflittuale. I giri di parole con cui vengono normalmente esposti dissensi e rifiuti sono non una forma di ipocrisia bensì un modo per evitare di urtare l’interlocutore. Qualcosa del genere esiste anche in Inghilterra, ma il risultato quantomeno ambiguo, perché il linguaggio del corpo ben sovente tradisce la falsità dell’enunciato.
Poi i messicani, nonostante i legami culturali con la Spagna, sono nel fondo americani, nel senso di appartenenti al continente America, dove la presenza del passato è molto meno ingombrante che da noi e il futuro viene continuamente immaginato. Nonostante le contraddizioni, un certo degrado, alcune eccessive libertà e/o eccessive ortodossie, gli Stati Uniti testimoniano l’idea contemporanea del superamento della divisione tra le tante realtà. Presentano questa meraviglia di mondi diversi che sono compresenti e possono anche entrare in conflitto l’uno con l’altro ma che alla fine si ritrovano, tutti, nella medesima idea di Paese, di cultura _ quella americana è una cultura fatta di tante culture”.
Cosa significa fare e insegnare musica sperimentale in Messico?
“Lavorare con menti vergini e sognanti, fresche, che _ a differenza dell’Europa, dove percepisco la stanchezza anche fra i ventenni _ hanno voglia di creare, di sperimentare, di scommettere sulle proprie capacità, di entusiasmarsi. Io guardo sempre avanti, mi piace dimenticarmi del passato, mi tuffo nel futuro.
Per approfindire eventuali ed ulteriori tematiche relative al multuculturalismo è possibile contattare Ornella Rota che sta allestando con un editore un sito dedicato all’argomento. Maggiori informazioni saranno fornite appena possibile.
Al momento per contattare la giornalista è possibile inviare una mail a francesco.bordi@culturalismi.com specificando in oggetto la dicitura “All’attenzione di Ornella Rota”
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