di Daniele Lucinato
Era l’afoso agosto del 2000 e mi trovavo per la seconda volta a Tokyo. In me, grande era la crisi. Tanto grande che le mie foto ne pagavano il prezzo. Sentivo che, come la mia anima si contorceva dalla preoccupazione, dalla nostalgia, dall’amore e dai ricordi, la mia macchina ne risentiva non essendo più l’attenta registratrice di luce che era sempre stata. Può sembrare strano ma un fotografo e la sua macchina risentono delle crisi di umore tanto quanto un pittore o un incisore, che non riescono più a trasmettere se stessi sulla tela o nella lastra di zinco, o anche un poeta o uno scrittore, che soffrono nel parto di parole date alla luce dalla loro mente quasi già morte. Ero vistosamente in condizioni tali da non poter più far lavorare bene la grande moltitudine di Sali d’argento che popolavano le pellicole della mia macchina. Inoltre la perdita di un rullino intero mi aveva gettato in un profondo stato di ignavia fotografica che mi spingeva a fare foto in maniera grigia e sterile. I soggetti erano sempre gli stessi, scorci, strade, persone ma mancavano di umanità, di vita propria, di realtà, cose che danno alle foto la loro anima e la loro splendida caratteristica di immortalità dell’immagine. Finché un giorno mi ritrovai a visitare il mercato del pesce di Tsukiji. Grande come un piccolo paese, il mercato generale dei prodotti ittici di Tokyo è una vera e propria fonte di ispirazione per chiunque. Come si può rimanere indifferenti ad uno spettacolo del genere. Descriverlo non vi porterà mai a sentire quelle voci gutturali, respirare quell’aria leggera ed umida, provare quelle sensazioni tattili e non, che mi hanno attraversato nel vivere quell’esperienza che è passeggiare alle 4:00 del mattino per grandi magazzini pieni di furgoncini che sfrecciano a tutta velocità, carichi di quintali di pesce ancora vivo, nella penombra di una prossima giornata ancora priva di sole, colorata con solo brevi nuvole filiformi in un cielo insicuro. In quel marasma di uomini ed animali ho ritrovato la mia immediatezza con la macchina. Era la mia mano a guidarmi. Sceglievo soggetti giusti, e tutto il resto lo faceva il mio otturatore scaricando una forte ondata di luce sulla pellicola che risvegliò improvvisamente i Sali d’argento destati dal richiamo di strade incerte e sbagliate. Era la mia rinascita. Solo oggi riguardando quelle foto posso dire di essere soddisfatto di tutto il mio operato, fiero in particolare di tre scatti, un vecchio operaio colto fermo in un attimo di pausa, il trasporto di un grosso tonno congelato a danno di cinque persone, e il particolare della testa di un tonno. Nel primo, ho rubato, come credevano i Pellerossa all’inizio del secolo scorso, l’anima di quell’uomo così intento a pensare, fermo, seduto. Unico punto di stasi in un autostrada umana. Nel secondo, lo sforzo dell’enorme peso della bestia congelata è così evidente nel lungo movimento strattonato di due operai che sembrano ancora ansimare dalla fatica. E infine, il volto del tonno. Fermo, morto, in attesa di essere trasportato dalla zona dei trasporti alle bancarelle della vendita. Fermo, tra due luci che rappresentano la storia passata e futura del suo corpo esanime, ora volto solo al nostro crudo nutrimento. Questo sono riuscito a scaturire dai miei scatti. “Tocchi” di realtà, impressi su carta fotografica anziché grumi d’olio seccati su di una ombrosa tela. Questo e dell’altro… Ora devo solo andare avanti, e continuare per la mia strada. Avanti. Senza pentimenti, ne insicurezze.
20 giugno 2002 ore 12:45 Tokyo
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