di Claudio Consoli
Dopo un lungo viaggio di lavoro in terra messicana, mio padre tornò a casa con abitudini alimentari decisamente più piccanti e il titolo di questa recensione non era altro che la sua risposta preferita alle infuocate rimostranze di noi pargoli alle prese con i suoi piatti.
Ora che sono cresciuto ed amo cucinare, se dovessi preparare un menù basato sulle mie passioni, non c’è dubbio che la portata principale sarebbe a base di musica ed essendo i Red Hot Chili Peppers assolutamente fra i miei gruppi favoriti ecco che il babbo, ancora una volta, aveva ragione, quindi cercate qualcosa di ignifugo con cui immunizzare le vostre papille gustative e preparatevi ad assaggiare il nuovo lavoro di Anthony Kiedis e soci.
A proposito di soci, non si può chiudere questo cappello senza parlare di John Frusciante, lo storico chitarrista dei RHCP che per la seconda volta è uscito dal gruppo; più che fornire ulteriori spunti ad italici scrittori di vicende adolescenziali, pare che questa volta i motivi del suo abbandono non risiedano né in problemi di droga né in tensioni o attriti tra Frusciante e Kiedis, quanto nella sua voglia di allontanarsi dal music business e dedicarsi senza stress o scadenze a progetti solisti o alternativi, come prova ulteriore di questa non traumatica separazione non si può non citare il fatto che il suo sostituto, Josh Klinghoffer, è un collaboratore e amico di Frusciante.
Come avvenne dopo la traumatica morte di Hillel Slovak nel 1988 per overdose di eroina, quasi simbolicamente colui che ne raccolse il testimone lo passa a sua volta ad un giovane chitarrista che ne condivide e ama stile e idee musicali pure avendo una sua solida personalità artistica: Josh è infatti un vero polistrumentista (oltre a cantare e suonare la chitarra, è anche batterista, bassista e tastierista) nonché musicista in varie band, ha collaborato infatti in tre dischi solisti dell’amico Frusciante (2004-2005-2009), é stato in tour con Beck nel 2003, nel 2004 in tour promozionale con PJ Harvey e ha collaborazioni con vari gruppi nei quali suona la batteria o le tastiere, collaborazioni che sarà curioso scoprire se il giovane chitarrista (nato nel 1979, quindi quasi una ventina d’anni più fresco degli altri peperoncini) riuscirà a mantenere in piedi, essendo ora il chitarrista ufficiale dei RHCP.
A differenza di molti altri gruppi di cui, nel corso degli anni ho osservato l’inevitabile declino i Red Hot Chili Peppers, a scapito di un sicuro successo di vendite ottenibile tramite l’autoclonazione musicale, non hanno né ceduto alla tentazione di stravolgere la loro identità perdendosi in improbabili avventure sonore, né hanno semplicemente addolcito e semplificato il loro sound, strizzando l’occhio all’informe massa di ascoltatori di musica, dopati dagli standard dettati da MusicaliTeleVisioni: il risultato è questo album che a mio avviso completa il percorso iniziato con “By the way” e proseguito con “Stadium Arcadium”, un lavoro che a me è piaciuto parecchio ma che temo possa finire per spiazzare molti.
Personalmente ho temuto infatti che il tempo avesse reso più insipidi i nostri peperoncini rossi piccanti, pertanto l’attesa di “I’m with you” è stata condita da qualche dubbio e una paura che non posso che descrivere come quella che si prova quando, facendo visita ad un vecchio parente che non vediamo da tempo, temiamo d’incontrare qualcuno che non sia più colui che conoscevamo ma che ce lo ricordi ancora abbastanza da sottolineare, impietosamente, quanto la versione di lui che tanto amavamo, sia ormai passata come i suoi giorni migliori. Inoltre il singolo che ha anticipato l’album “The adventures of raindance Maggie” è un brano strano, che forse non possiede i canoni della hit ma che ha invece la strana facoltà di “funzionare” egregiamente all’interno del disco che lo contiene; insomma il mio primo ascolto di I’m with you è partito, devo ammetterlo, con un brivido che però si è trasformato pian piano in energia, poi curiosità, seguita da vivo apprezzamento e sfociata alla fine dell’album in un senso di piena soddisfazione: i RHCP ci sono ancora, sono cresciuti, meno folli e imprevedibili magari ma con tanta voglia di scrivere e suonare buonissima musica.
Come avvenne con Dave Navarro (che sostituì Frusciane dopo il suo primo abbandono della band nel 1994) ai tempi di One Hot Minute, anche questa volta i RHCP hanno tratto beneficio dall’ingresso di un nuovo membro: Klinghoffer porta in dote infatti uno stile che pur non stravolgendo il marchio di fabbrica della band, le dona senz’altro freschezza e nuove idee, come risulta infatti dai vari episodi in cui è evidente, rispetto a Frusciante, la maggiore propensione all’uso di effetti sulla chitarra, distorsioni leggermente meno sature o graffianti ed in generale un’attenzione lodevole nelle scelta dei suoni; inoltre molte tracce beneficiano di sezioni di tastiera o piccole campionature almeno a mia memoria inedite per il gruppo e questo deve essere frutto della stimolante collaborazione fra i vari talenti di Flea e Klinghoffer.
Lungo tutto il il disco è chiara una maggiore maturità compositiva che si traduce in un disco che risulta più articolato dei lavori precedenti a livello di songwriting, con tracce dai risvolti e dagli arrangiamenti sorprendenti come ad esempio “Happiness loves company” che apre con un piano ed un ritmo di batteria semplici ma trascinanti, accompagnati da sfumati cori da parte di Klinghoffer ed un cantato di Kiedis che con la sua maturità personale e artisitica raggiunge un livello ed una melodiosità veramente apprezzabili; azzarderei degli echi quasi britpop che potrebbero risultare inquietanti per qualcuno ma che per quanto mi riguarda funzionano alla grande! Altrove, come in “Did I let u know”, il pezzo sembra partire con un groove più o meno classico per i RHCP, ma poi il suono della chitarra di Josh e il successivo evolversi della canzone verso ritmi e suggestioni quasi caraibiche con sfumature latine a ricordarci quanto la loro amata California sia prossima al Mexico, ci sorprendono e deliziano di nuovo.
Ma ritornando all’inizio, il disco parte con “Monarchy of roses” che pronostico come prossimo singolo, batteria incalzante, voce alterata da effetti, basso pronto ad esplodere subito dopo in una strofa dal groove infinito e dal suono molto pulito, spezzata da un bridge con la chitarra molto distorta e carica a fare da contrappunto alla radiofonicità della strofa: gran pezzo!
“Factory of faith” prosegue dalla strofa della canzone precedente, con ancora un ottimo e incalzante Flea spalleggiato da un Chad Smith dai colpi secchi e metronomici, un cantato molto ritmico, quasi rap, di Kiedis che poi ridiventa armonioso e melodico nel ritornello, chitarra dai suoni molto moderni ma comunque classicamente funky, in pieno stile RHCP.
“Brendan’s Death Song” è dedicata a Brendan Mullen, amico della band morto nel 2009, ma soprattutto grande personalità del mondo musicale: egli fu infatti lo storico proprietario del punk club di Los Angeles “The Masque” locale fondamentale per la scena punk americana anni ’70 fondato da questo scozzese immigrato via Londra, nonché scrittore di vari libri sulla musica e biografie di gruppi, come il postumo “Red Hot Chili Peppers & Brendan Mullen – An Oral/Visual History” (consigliato ai fan dei peperoncini!!). Il Pezzo è allo stesso tempo la classica toccante ballata della band ma anche qualcosa di nuovo: vi troviamo infatti una malinconica chitarra che però carezza invece di graffiare come in altre ballad del passato, si pensi, ad esempio, al “doloroso assolo di chitarra di “I could have lied” su “Blood Sugar Sex Magik”, un basso molto presente e pieno di energia che sembra esprimere quella rabbia che a volte ci riempie quando pensiamo a chi non c’è più e vorremmo accelerare, fino a superare il cielo, sperando di raggiungere chi è andato avanti e magari riportarlo indietro, il tutto sottolineato da un drumming spettacolare con un puntuale e frequente uso dei piatti. Più di ogni altro aspetto però, ciò che è diverso rispetto rispetto ad altre ballad passate è un certo feeling di triste tranquillità ed accettazione, non una dedica carica di rimpianto e dolore ma un sentito ed equilibrato saluto in musica.
“Ethiopia”, forse in omaggio all’Africa che cita nel titolo, è una canzone molto ritmica con un interessante contrappunto fra voce e chitarra, con la sezione ritmica ad accompagnare con il solito gusto e varie chicche sonore spolverate lungo il brano.
“Annie Wants a Baby” è probabilmente il singolo che io avrei scelto per lanciare il disco perché ne contiene le varie anime, una melodia azzeccatissima, ritmo in abbondanza, soprattutto nell’apertura e qui e là tutti gli ingredienti più o meno nuovi portati dal nuovo membro del gruppo.
“Look around” è a mio avviso il brano più immediato e radiofonico del disco almeno nel suo tema principale, ci regala però, nel bridge che ci porta al suo ultimo minuto, un passaggio interessantissimo, con un basso fantastico e Klinghoffer che si fa scudiero di Flea con la sua chitarra nel classico levare funky, il tutto suona quasi a metà fra un moderno jazz e un pezzo lounge senonché, subito dopo, la chitarra diventa più distorta a far da tappeto ad un Kiedis che quasi cita il se stesso di “By the way” in un breve momento di cantato sincopato.
Arriva dunque “The Adventures of Rain Dance Maggie” il singolo che ha preceduto l’album dando un assaggio dello stesso, come ho già detto il pezzo funziona benissimo all’interno delle altre tracce, il suo uso come singolo d’altronde ha forse rivestito una sorte di provocazione, quasi a voler spiazzare i fan con un brano che lasciava capire qualcosa ma non abbastanza di ciò che stava introducendo; al di là di queste considerazioni è una canzone sorretta da un semplice ma maliardo giro di basso che ti prende piano piano, chitarre quasi minimaliste ma dai suoni interessanti e un Kiedis istrione e con una certa voglia di giocare che chiude il tutto con una serie di vocalizzi accompagnati da Chad Smith con una squillante cowbell.
Su “Did I Let u Know” ho già scritto ma vorrei aggiungere che per ora è forse la mia preferita e rende ancora di più se si considera che è seguita da “Goodbye Hooray” che con il suo ritmo serrato, una chitarra aggressiva come non mai all’interno di questo album, una sezione ritmica eccellente come sempre ed in generale una velocità che, seppur spezzata da un breve intermezzo delicato di cori e tastiere, ci da quella rincorsa ed energia che ci scaraventa nell’inaspettata “Happiness Loves Company” di cui, pure, ho gia detto.
La dolce intro di “Police Station” ci porta in una canzone dal timbro molto soft, suonata ed arrangiata alla grande e con parti di tastiera che suonano molto intime comunque interrotte da incisive sezioni più ritmiche.
“Even You Brutus” è una canzone per me bizzarra, di quelle che non si riesce a capire fino a che punto ti piacciano o no, con un cantato che nelle strofe sfiora il rap, melodico nel ritornello ma che ci regala anche indefinibili gridolini da pop star, il pezzo riesce comunque ad intrigarmi grazie al solito grande basso e soprattutto per le interessanti tastiere presenti in tutto il brano.
Stesso ambivalenza che mi trasmette “Meet Me At The Corner” che comunque è un pezzo meno bizzarro con un’inedita e interessante vena un po’ dark, probabilmente suggerita dai cori e le tastiere che ben si alterna con un singing molto buono, che probabilmente mai mi sarei aspettato dal Kiedis degli inizi di carriera.
Chiude il disco “Dance, Dance, Dance” a mio avviso un divertissment nel quale il gruppo si lancia in una rutilante calvalcata che con cori sognanti ed un sound che porta in dote un soffuso calore, sublima lo spirito diverso di questo atteso e più che positivo nuovo lavoro dei Red Hot Chili Peppers.
In chiusura permettetemi una dedica, in quanto i dischi di questo gruppo che amo, coincidono spessissimo con momenti importanti della mia vita, quando usciva Stadium Arcadium, stavo per perdere qualcosa di grandissimo, per cui ascoltando “Brendan’s Death Song” m’è venuta voglia di citarne una strofa:
“…it’s safe out there and now you’re everywhere,
just like the sky.
And you are love,
you are the love supreme,
you are the rye.
and when you hear this,
you know it’s your jam,
it’s your goodbye. “
…ciao Pa’!
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