di Fabio Migneco
Direttore, quanti francesismi ho a disposizione per ogni pezzo? Uno? Posso? Vado.
Che titolo del cazzo.
Non si capisce come gli vengano in mente.
Ma lasciate quello originale, senza aggiunte inutili. Non è che ogni film con Stallone deve avere il nome del protagonista nel titolo. Anche perché Rocky e Rambo hanno un nome fico. Jimmy Bobo ricorda Bubi, quello dello spot del salame che Stallone fece anni fa in pieno declino prima di risorgere dalle ceneri di una carriera che pareva destinata agli straight to video. Tanto più che nel film lo chiameranno per nome e cognome giusto un paio di volte, altrimenti solo per nome e nemmeno più di tanto… Comunque…
Veniamo al film, visto in anteprima mondiale all’ultimo Festival di Roma, al cospetto di Sly, Hill e dello sceneggiatore e produttore Alessandro Camon.
È il ritorno tanto atteso e graditissimo al cinema di un immenso cineasta come Walter Hill, uno degli ultimi grandi del cinema americano. A dieci anni di distanza dal qui da noi sottovalutatissimo Undisputed (ma nel frattempo ha fatto poche ma eccelse cose in tv, come il pilota di Deadwood o la miniserie Broken Trail) Hill torna e lo fa con la consueta classe e intelligenza, con un mestiere solidissimo unito a una maestria d’autore e una visione assolutamente non comuni. Alla prima collaborazione con Stallone (che ha detto dell’esperienza: “è come andare in guerra con un grande generale”) e con per le mani uno script scoppiettante per situazioni e battute, adattamento di una miniserie a fumetti, hanno compiuto il miracolo. Quello di zittire ancora una volta tutti coloro i quali ridevano all’idea di uno Stallone eroe d’azione a oltre 60 anni. A parte il fatto che io che ne ho 31 cambierei il mio fisico col suo di adesso – e lo farebbero molti, ma il carisma, la presenza scenica, la classe sono cose che non vanno in pensione.
Bullet to the Head è l’epitome del cinema old school, un occhio a quello glorioso dei ’70 e ’80 (che Hill stesso ha contribuito non poco a rendere grande e mitico) e uno alla contemporaneità. Sia pur un pelo meno incisivo che in passato a livello di movimenti di macchina e scelte registiche, un Hill settantenne vale comunque più di tutti gli shooter anonimi e standardizzati in giro oggi. E il suo sembra il film di un ventenne che mangia la vita a morsi tanta è la carica e l’energia che emana, non quello di un pacioso e autoironico settantenne che sembra il colonnello Sanders del noto pollo fritto americano.
Stallone dà la sua migliore interpretazione degli ultimi anni, una delle più riuscite caratterizzazioni di tutta la sua carriera, merito della sua spiccata intelligenza artistica (e chi ancora non gliela riconosce è solamente un povero stolto), di una sceneggiatura che gli calza a pennello come un abito firmato su misura o un paio di scarpe di pelle fatto a mano (metafora da lui stesso usata in conferenza stampa per definire il film), ma anche – suo malgrado – di un comprimario un po’ incolore a tratti come Kang, forse più a suo agio nelle seconde file dei vari Fast and Furious. Jason Momoa ha il fisico e la faccia adatti, è un cattivo di tutto rispetto e la scena del combattimento con le asce è già di culto, anche perché Hill l’ha girata nella stessa fabbrica abbandonata dove iniziò il suo cinema con L’eroe della strada, mitico film con Bronson e Coburn, primi di una galleria di duri senza pari.
L’ironia fa davvero da padrone e Sly è magnifico nel dispensare battute e proiettili a destra e a manca con l’aria di chi ha già visto e fatto tutto, forse troppo. A farne le spese, tra gli altri, Christian Slater in un piccolo ma riuscito ruolo che fa ricordare gli antichi quanto brevi fasti di un attore che nel suo piccolo meriterebbe di meglio delle pellicole troppo spesso dozzinali nelle quali è finito negli ultimi anni.
Divertimento puro per tutti, al cubo se si tratta di qualcuno – come il sottoscritto – nato e cresciuto negli anni ’80 con questo tipo di film. Per fortuna c’è gente come Hill e Stallone (per inciso: degli ex soci Planet Hollywood, grandi amici nella vita come tutti sanno, va a lui la palma del miglior ritorno da protagonista all’action, una spanna sopra gli altri due, il suo è il film migliore, un gradino sotto Schwarzy con The Last Stand e terzo Willis col quinto Die Hard, più per affetto che per altro) che ancora ci crede e va avanti per la sua strada, con fierezza e tenacia invidiabili.
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