di Massimiliano Franchi
Per ogni artista nuovo e promettente, il terzo disco rappresenta l’affermazione e la conferma definitiva della propria creatività e talento, spesso coincidente con un capolavoro, un punto fermo che resterà per sempre nelle orecchie degli ascoltatori: per Il Teatro degli Orrori questa legge stavolta vale solo per metà.
Se è pur vero che Il Mondo Nuovo conferma l’originalità di sound e liriche della band capitanata da Pierpaolo Capovilla, dall’altra parte è evidente un ammorbidimento dei toni oscuri e rumorosi degli esordi.
Come al solito intriso di citazioni letterario-artistico-musicali (a cominciare dal titolo ispirato ad Aldous Huxley e dalla copertina opera del pittore contemporaneo Roberto Coda Zabetta), il disco è un concept album sul tema della migrazione, intesa sia materialmente come spostamento verso un nuovo luogo, sia come idiosincrasia verso una realtà e una società sempre più estraniante.
L’intro di batteria possente e l’apertura maestosa delle chitarre di Rivendico riprende il discorso musicale lasciato con i dischi precedenti, mentre Io Cerco Te rappresenta un manifesto del nuovo sound per un pubblico più vasto con melodie più orecchiabili e cori ripetuti.
Non vedo l’ora è una lettera d’amore nascosta tra ritmi danzerecci e chitarre acide, mentre Skopje è un doloroso contrasto tra la dolcezza della strofa e l’apertura tragica del ritornello, come la straziante storia di un amore lontano che racconta. Se Gli Stati Uniti d’Africa è un interessante connubio tra ritmi tribali, elettronica e sonorità vicine al nu-metal, Cleveland-Baghdad è una disperata confessione ad un amico di un soldato americano in Iraq accompagnata da chitarre acustiche e archi e Martino è nient’altro che “Il Compagno” di Esenin trasposto in versi in chiave noise rock. I versi veloci e taglienti di Caparezza accompagnano l’elettro-rock di Cuore d’Oceano, mentre l’acustica Ion è un elegia dedicata ad un operaio bruciato vivo in una fabbrica a Varese e i toni si vanno ad alleggerire con Monica, ancora malinconica storia di un amore separato dal destino, e Pablo, dolce poesia accompagnata da tastiere. Nicolaj è una struggente storia narrata da ritmi lenti e chitarre taglienti, Dimmi Addio è un crescendo malinconico intriso di rassegnazione, mentre Doris è una rivisitazione dell’omonimo brano degli americani Shellac.
Adrian inizia con ritmi cupi per poi scaturire un un rabbioso finale, prima dell’ultima traccia Vivere e Morire a Treviso, ninna nanna recitata tra ritmi minimali elettronici, tastiere e chitarre eteree.
Insomma il progetto di portare un lirismo ispirato ad artisti italiani (quali Pasolini, Gaber, De Andrè, Carmelo Bene…) e poeti stranieri (Celine, Rimbaud, Antonin Artaud, Esenin…) alle orecchie di un vasto pubblico di ogni età, tramite un rock che vuole riprendere il noise di band come Shellac e Jesus Lizard, integrandolo con melodie più leggere, è di certo molto ambizioso e Il Teatro degli Orrori non falliscono in questo tentativo, ma neanche riescono stavolta a convincere in pieno. Consideriamola un’ottima prova prima del vero e proprio capolavoro che potrà arrivare in seguito.
Per maggiori info visitate il loro sito ufficiale ( http://www.ilteatrodegliorrori.com ) o il sito dell’etichetta discografica ( http://www.latempesta.org ).
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