Succede anche a te, è innegabile.
Capita a tutti quanti. Siamo abituati ad una serie di azioni quotidiane e settimanali da portare a termine, sempre le stesse, chi più chi meno. Diciamo costantemente di volercene liberare almeno in parte, ma proprio non ci riusciamo.
Alcune di queste ripetizioni meccaniche sono frutto del modo in cui abbiamo impostato il nostro vivere, dal lavoro con relativa logistica alle, presunte, esigenze del quotidiano. Altre consuetudini, quando si riesce a fare propria anche solo una piccola parte di quell’agognato binomio tempo-denaro, derivano invece da scelte meno vincolate ma più volute: una passeggiata domenicale con un amico, un film al cinema magari il giovedì sera, una birretta infrasettimanale in compagnia, la colazione al bar. Insomma, siamo tutti degli abitudinari in un modo o nell’altro, anche tu che lo stai negando proprio ora.
Esiste però qualcuno che le abitudini, le consuetudini, i riti preferisce osservarli silenziosamente da un angolo privilegiato, fin nei minimi dettagli, per poterceli poi raccontare alla propria maniera declinandone strutture e mutamenti. Si tratta del fascino letterario dei clienti abituali…
“Gli habitué dei caffè” è un racconto breve di Huysmans che dà anche il nome ad una piccola raccolta di quattro sue narrazioni opportunamente realizzata dai ragazzi di Bordeaux Edizioni per la loro pregievole collana dei classici. Sì, avete letto correttamente: “esiste” e non “è esistito”. L’autore parigino, noto per il suo manifesto del decadentismo “À rebours” è di fatto ancora fra noi perché le sue descrizioni della società, tanto nei modi di comunicare quanto nei comportamneti, sono effettivamente percepibili come attuali e reali anche se, ad onor del vero e per amor di completezza, l’effetto della scrittura di monsieur Joris-Karl Huysmans è effettivamente duplice in ambito temporale.
Leggendo queste sue quattro testimonianze l’800 francese, che si dirige con decisione verso il primo ‘900, emerge potentemente; è innegabile.
Quegli abiti lunghissimi noti come “redingote”, che oggi sopravvivono indosso solo a pochi portieri di elegantissimi alberghi, e l’assenzio presenti ne “Les Habitués de café”, così come il desueto concetto stesso di “Buffet delle stazioni” del secondo racconto allestito in maniera abbondante e veloce, più volte al giorno, prima del fatidico urlo «In carrozza!» proveniente dai binari, passando poi per le canzoni popolari tra le più sarcastiche e goliardiche quasi strillate dalle società di canto, alla fine dell’orario di lavoro, in “Una goguette” per chiudere con i cosidetti caffè-concerto nelle bettole di periferia ne “Il Point-du-Jour”… Sono solo alucuni degli elementi tardo-ottocenteschi che ci fanno sorridere ed evocano nelle nostre menti un’epoca a cui sarebbe stato bello appartenere.
Questa però è solamente la prima sensazione, quella immediata, che ci assale nel gustare l’ironia ed il linguaggio, unico nel suo genere utilizzato dal curiossimo ed attento osservatore-scrittore francofono. Il suo successivo “maleficio” su di noi consiste nel catapultarci poprio lì, in piedi fra quei tavoloni unti buttando in bocca tutto l’improbabile prima di correre ad un binario, oppure comodamente seduti in un Café a bere distillanti sovente perniciosi, guardando e spiando i nostri vicini di sedia. Potere evocativo, direte voi. Tanti sono gli scrittori che hanno una abilità descrittiva tale da portati nel momento esatto affrontato dalle loro penne. Verissimo, ma quanti riescono ad ATTUALIZZARE LE NOSTRE PERCEZZIONI. Quel beffardo investigatore dell’animo ci fa sedere PROPRIO ADESSO in mezzo ad un pubblico chiassoso dei giorni nostri che con le proprie urla riesce ad accompagnare, sovrastare o anche schernire chi si esibisce su un palco, ma tanto il vino ingurgitato da ambo le parti è talmente abbondante che il tutto finirà in grandi risate. E che dire di come ci trasporta nelle banlieues di una grande città dove da un lato passeggiamo, anche nella mattinata di OGGI, godendo di quella campagna che abbiamo quasi dimenticato mentre dall’altro lato vediamo sorgere imponenti fabbriche, nate per i bisogni metropolitani, le cui scomode dimensioni non avrebbero mai trovato spazio all’interno delle mura cittadine?
Questo improvviso e rapido trasporto è bivalente, per tutti. Grazie alle capacità descrittive del nostro raffinato “spione” ognuno di noi è allora, ma è anche qui ed ora. Vi sottopongo il mio caso, che può essere declinato per tutti gli altri voi colleghi habitués. Leggendo Huysmans io mi trovo immediatanmente in un locale della Rive Gauche, ma allo stesso momento sono anche in un bar di Trastevere. I vicini di tavolo che a Parigi si scrutano vicendevolmente e che domandano informazioni sull’abituale avventore del pomeriggio (a cui non hanno mai rivolto parola) se non lo vedono arrivare da qualche giorno, sono gli stessi che a Roma al momento di pagare si avvicnano al cassiere e con finto fare distaccato intonano il classico incipit: «Ma che fine ha fatto…? È un po’ che non lo vedo…». Ugualmente la sensazione di pace nelle banlieues, che già nel 1885 i Parigini andavano cercando allontanandosi dalla Ville Lumière, è la stessa che posso ritrovare anche io nel momento in cui vado incontrando le prime sequenze interrotte di alberi e campagna uscendo dal raccordo anulare. E per quanto riguarda le canzoni? Dov’è che mi posso lasciare andare ad adagi e stornelli popolari bevendo del vino bello corposo se non alle fraschette dei Castelli Romani? C’è così tanta differenza fra quei locali allestiti per lo più all’aperto e le “goguettes” francesi dove si intonavano versi cantati con uguale ironia ed irriverenza?
Questa è la grandissima capacità di Huysmans, scorrendo le righe degli habitué dei caffé ho negli occhi i quadri di Toulouse-Lautrec, o di Degas, che raffigurano coppie sedute ai Café, spesso nella configurazione uomo dallo sguardo perso e donna dall’aria infastidita o rassegnata. Allo stesso tempo però sfogliando quelle stesse pagine ho nelle orecchie “L’uomo in frack” di Domenico Modugno, definita da alcuni giornalisti come “una cartolina da Belle Epoque”. Una canzone che abbiamo sentito cantare dai nostri papà (e sentiamo tutt’ora in circostanze precise) che ha nel testo parole come “ultimo caffé”, “carrozza”, “cilindro per cappello” e “fiume silenzioso”.
Nella mia percezione, ora, Roma e Parigi non sono mai stati così vicine nel tempo e nello spazio e lo sono proprio lì, nelle pagine di queste quattro perle di una letteratura senza tempo.
Complimenti al prezioso lavori dei due curatori e traduttori, Paolo Bellomo e Luca Bondioli, che hanno dato, davvero, lustro ad una scrittura non facile da rendere nella lingua italiana.
Personalemnte non amo quel tipo di slogan che inneggia ad un classico letterario come un testo dalla grandiosa modernità, ma in questo caso posso dire che è davvero suggestivo essere un cliente abituale di Monsieur Joris-Karl Huysmans perchè tutti noi possiamo essere gli osservatori di un’epoca grandiosa e CONTEMPORANEMANTE gli osservati di un periodo storico che stiamo provando a gestire e comprendere.
Descrivendo i grandi cambiamenti tangibili in cui si trovava a muovere i suoi passi, questo inquieto e sensibile narratore del comportamento sociale era riuscito a ben interpretare la sua posizione di letterato a cavallo fra due periodi socialmete rilevanti, la fine di un ‘800 romantico-decadente e gli inizi di un ‘900 che inizia a gettare importanti basi per l’era contemporanea.
Forse il suo occhio impertinente ci ha indicato una via. Ora sta a noi capirne il suggerimento, magari di fronte ad una tazza di caffé ed un bicchierino di amaro mentre osserviamo silenziosamente la variegata umanità che ci corconda e di cui volente o nolente siamo parte anche noi, nello spazio e nel tempo.
Joris-Karl Huysmans, “Gli habitué dei caffé”, Roma, Bordeaux edizioni, 2020.
Titoli originali: Les Habitués de café (1889) ; “Le Buffet des Gares” (1898)” ; “Une goguette” (1880); “Le Point-du-Jour” (1885).
Foto di Francesco Bordi © tutti i diritti riservati
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