HUGH LAURIE & THE COPPER BOTTOM BAND. live @ Coliseu dos Recreios, Lisbona. LET THEM TALK WORLD TOUR 2012

 

di Fabio Migneco


(immagine da http://1.bp.blogspot.com/-cPM2mI7fet8/T_OK5ulBncI/AAAAAAAAAic/URnh_J4bjQ8/s1600/hughlauriee.jpg )Adesso che, dopo otto stagioni, Dr. House ha chiuso i battenti e non riceverà più le schiere di milioni di appassionati che lo seguivano, il suo protagonista, sir James Hugh Calum Laurie, può dedicarsi anima e corpo alle sue passioni. Non abbandonerà la recitazione (ha già un paio di film pronti e altrettanti annunciati o in lavorazione) e, chissà, magari finalmente troverà il tempo di completare il troppo a lungo rimandato secondo romanzo, dopo il felicissimo esordio pre-House con Il Venditore di Armi.

Soprattutto però può gettarsi a capofitto nella musica, a quanto pare la cosa che lo rende più felice al mondo. Giusto un anno e qualche mese fa mr. Laurie pubblicava un album blues di debutto che ha ricevuto recensioni entusiaste un po’ ovunque, ha venduto molto bene e lo ha portato a ricevere numerosi premi, tra cui il GQ Award come personaggio musicale dell’anno.

Let them Talk, questo il titolo, è una riuscitissima reinterpretazione di vari classici più o meno noti del blues, il genere prediletto dall’attore inglese. Qualcuno sicuramente in questi mesi successivi all’uscita dell’album ha avanzato delle legittime perplessità. Del tipo: in studio, con i macchinari giusti e i musicisti alle spalle, con la possibilità di sbagliare e rifare quante volte si vuole, anche Hugh Laurie ne esce come un grande musicista.

Uno che può stare a testa alta tra i grandi del genere che ama e cita e omaggia.

Ma dal vivo? Lì non si scherza. Come suonano Laurie e il suo blues dal vivo?

Be’, la risposta non si è fatta attendere, dopo qualche live di presentazione del cd, qualche ospitata in programmi televisivi americani e non, Laurie si è imbarcato in un tour mondiale che all’inizio era condotto un po’ a singhiozzo per far spazio alle riprese dell’ottava e ultima serie di House, poi è diventato a tutti gli effetti un world tour degno delle più grandi star del panorama musicale.

Lo spettacolo messo in piedi da Laurie ha toccato praticamente tutte le città dell’America, da dov’è partito e dov’è ritornato dopo una lunga parentesi europea che lo ha visto sfilare dalla natia Inghilterra alla Scozia, dalla Francia alla Spagna, alla Russia, fino a concludere questa tranche a Lisbona, il 31 luglio scorso.

Poiché Hugh Laurie evita accuratamente -almeno finora- di esibirsi in Italia (forse per emulare l’amico e collega Rowan Atkinson quando rimandò per anni la messa in onda di Mr. Bean nel Bel Paese perché voleva continuare ad andare in vacanza in Sardegna in santa pace, ma sembra comunque un motivo strano quanto risibile a pensarci bene…) chi vi scrive è volato nella Città Bianca per assistere allo show e avere davanti ai suoi occhi la risposta definitiva alla domanda “quanto vale Hugh Laurie come musicista?”

Vale parecchio fidatevi.

Nonostante i suoi mille tentativi di sminuirsi e minimizzare la sua performance, sin dall’esordio della serata, quando presentandosi in portoghese (quel poco( immagine da http://www.tumblr.com/tagged/david-piltch ) che so – ammette) introduce “la più grande band del mondo, la Copper Bottom Band. Qualsiasi cosa accada sentite loro. Guardate me, ma sentite loro. Pensate a noi come a una Rolls Royce, dove io sono la statuina argentata sul cofano e loro il resto della macchina!”

Una volta che la Rolls viene messa in moto il Coliseu dos Recreios applaude a tempo ed è subito una grande festa di puro blues.

Il pezzo che Laurie ha scelto per aprire tutti i concerti del tour è la trascinante Mellow Down Easy di Little Walter, rifatta da lui e dalla band davvero magnificamente. Proprio non poteva trovare apertura migliore di questa. Una serata che parte così non può che continuare in meglio. E infatti Laurie e i suoi proseguono dritti, oliatissimi e affiatati per venti pezzi, più due bis, in quella che è una scaletta di tutto rispetto.

La prima traccia che pesca dall’album è St. James Infirmary, che suona seduto al pianoforte, come per la maggior parte del concerto. Let the Good Times Roll è la scusa buona per far cantare tutto il pubblico, durante il ritornello, con Laurie a benedire la riuscita alzando i pollici e sorridendo divertito. Battle of Jericho è la prima canzone dove anche le luci contribuiscono a creare la giusta magia, colorando il palco di rosso. You don’t know my Mind, portata al successo da Clarence Williams e Sam Gray, nella versione di Laurie è già un suo classico praticamente. Buddy Bolden’s Blues è il primo omaggio della serata a Jelly Roll Morton. Laurie introduce ogni brano con grande perizia e con vari aneddoti che dimostrano la sua cultura in materia, per lui il blues è veramente una passione che ha radici lontane e che lo ha accompagnato lungo tutto il corso della sua vita. Trascinante e riuscita anche la cover di Unchain My Heart, classico di Ray Charles, vera e propria chicca Junco Partner di Willie Hall portata al successo dal Prof. Longhair, vero e proprio idolo di Laurie. E ancora spazio al Jimmie Rodgers di Waitin’ for the Train, di nuovo Morton con Whinin’ Boy Blues altro brano dal cd, ma anche Muddy Waters con la sua Lousiana Blues, la tradizionale John Henry.

Poi una divertente pausa per il rito del whisky col quale tiene in piedi la band, come scherzando dice Laurie a un pubblico ormai assolutamente festante. Un intermezzo divertente e divertito per poi riprendere subito con la deliziosa Yeah Yeah di Georgie Fame, anche questo un brano che di fatto ci guadagna nella loro versione. Dear Old Southland di Louis Armstrong è una parentesi strumentale da brividi. La parte finale è affidata a Wild Honey, Careless Love di Lonnie Johnson, l’attesa Swanee River, classico che lo Hugh Laurie bambino ha imparato ad amare dopo il rifiuto da parte dell’insegnante di piano a suonarlo a lezione. E poi Tipitina, uno dei suoi brani preferiti di sempre, sempre targato Prof. Longhair. Let them Talk, la romanticissima title-track del suo cd, portata al successo da Harry A. Carlson, Lew Douglas e Erwin King. Finale affidato a Green Green Rocky Road, altro brano dalla posizione fissa nella scaletta, con cui chiudere egregiamente e in maniera trascinante tanto quanto l’inizio speculare con Mellow Down Easy. Immancabile il richiamo del pubblico dopo i saluti ed ecco i bis, due, Changes e Tanqueray di Johnnie Johnson.

Semmai qualcuno dei presenti avesse avuto il dubbio di cui dicevamo a inizio pezzo, state pur certi che a fine concerto era stata fatta chiarezza in maniera definitiva.

Hugh Laurie musicista non è assolutamente un bluff e il suo cd non è un caso, anzi. E’ il frutto di anni di ascolti appassionati e iper-selettivi, che lo hanno portato ad essere qualcosa di innovativo e importante per il panorama blues come non succedeva da decenni, probabilmente dai tempi del caso Blues Brothers, che a livello musicale ridiede splendore a stelle – sembra impossibile oggi –allora praticamente dimenticate come quelle di Ray Charles, James Brown, Aretha Franklyn, John Lee Hooker, Cab Calloway e compagnia bella.

Certo, come dice lui ha alle spalle una band che se non è la più grande del mondo è sicuramente una di quelle con il miglior sound e con i migliori musicisti.

La Copper Bottom Band è infatti formata da Jay Bellerose alla batteria, Kevin Breit alle chitarre, Vincent Henry che dà solo fa il lavoro di una intera sezione fiati, David Piltch al contrabbasso, Patrick Warren alle tastiere e alla fisarmonica e Jean Mc Clain detta Sister J ai cori, con la sua voce veramente portentosa. Basta fare un giretto su Google e cercare i nomi di questi artisti per capire il vero valore di questo insieme unico. Parliamo di artisti di primo livello che hanno suonato insieme ai più grandi al mondo.

Il discorso è sempre quello: tutto questo è stato possibile grazie a un successo pregresso, nel caso specifico per Laurie il coronamento del suo sogno di sempre è arrivato grazie al successo di House. Ma avrebbe comunque potuto fare qualcosa di mediocre o tirato via come purtroppo fanno molti ai quali viene dato un’opportunità unica in virtù dello status raggiunto, tanto il pubblico è assicurato comunque. Lui fortunatamente ha dimostrato di non essere solo un privilegiato. Lui ha dimostrato di meritarsi una simile occasione e di rispettare il pubblico, ancor prima del blues e dei suoi musicisti cult.

fotografia di Fabio Migneco © tutti i diritti riservati E ha raggiunto una dimensione che in pochi possono dire di aver raggiunto, dove tutti i suoi lati artistici confluiscono e si ampliano, a beneficio di uno show riuscito, solido, divertente, trascinante, colto, appassionato. Basta vedere la sua presenza scenica, la sua padronanza sul palco, il suo lato buffonesco, la sua ironia, la sua capacità di intrattenere con una battuta, di rispondere per le rime a qualche grido scherzoso del pubblico (come ad esempio quando impassibile ha sentenziato “Thanks, mom!” dopo che qualcuna gli aveva urlato “I love you!!”), il suo lasciarsi andare a movenze, balletti e sgambate che fatti da qualcun altro risulterebbero improbabili ma che con lui non stonano. Gli anni teatrali e quelli da british comedian hanno dato i loro frutti e si uniscono con la bravura tecnica di polistrumentista (suona senza fatica piano, chitarra e armonica) e con una voce che regge benissimo per tutta la serata, sera dopo sera.

Una sorpresa dunque? Si, non del tutto solo per chi lo conosceva bene già da prima di House(non credo che in Inghilterra qualcuno avesse dubbi su questo lato dell’artista, che per inciso ha sempre suonato almeno il pianoforte in ogni show tv a cui ha preso parte).

Soprattutto perché ora che Gregory House è in moto con Wilson verso chissà dove, Hugh Laurie è libero di prendere qualsiasi strada vuole nella sua carriera. Anche e soprattutto in quella musicale. Ci auguriamo che presto faccia seguito un secondo album e un nuovo tour ancora più ricco. Perché l’impressione vivida che si è percepita nel vederlo live è che, al di là di ogni possibile discorso, Hugh Laurie si diverte come un matto a suonare e cantare il “suo” amato blues. Per questo il nostro auspicio per lui (ma anche per il pubblico che potrà giovarne) è che possa suonare il più possibile e in più posti possibile. Magari, prima o poi, anche in Italia!

 

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