di Fabio Migneco
Un caloroso bentornato ad Alessandro Piva, il cui cinema ci aveva incuriosito e divertito all’inizio del nuovo millennio, prima col cult LaCapaGira e poi con Mio Cognato. Nel frattempo Piva si era dedicato alla radio, al teatro, alla tv (con la miniserie La scelta di Laura, targata Taodue), alla famiglia. Ma anche all’insegnamento, sempre restando in ambito audiovisivo, nonché a un documentario candidato in questi giorni al David di Donatello, Pasta Nera, che è stato molto apprezzato da critica e pubblico. La sua ultima fatica cinematografica si intitola Henry, liberamente tratta dall’omonimo romanzo di Giovanni Mastrangelo edito da Einaudi. Ma l’origine letteraria non inganni: Henry è puro cinema pivano al 100% e segna il ritorno alle atmosfere e alla produzione indipendente (e autofinanziata si badi bene) del suo folgorante esordio. In poco meno dei canonici novanta minuti Piva riesce a mettere in piedi una storia di criminalità e droga dal gran ritmo, con diverse soluzioni visive interessanti e un’ottima direzione degli attori.
Sono tutte piccole parti quelle del film, ma ognuna è essenziale, sia per la qualità della scrittura, sia per le oculate scelte di casting. Tutti, dalla Crescentini a Riondino, da Gioè a Coco sono perfetti nei panni che rivestono, in alcuni casi strepitosi, come il Rocco di Pietro De Silva, il boss Alfonso Santagata, lo scagnozzo di Dino Abbrescia o lo sbirro cocainomane di Paolo Sassanelli, sempre impagabili loro due, vecchie conoscenze del regista, che contribuì a lanciarli definitivamente dodici anni fa.
Ci poteva stare il dubbio, il timore che Piva avesse perso il suo tocco, ma così non è, anzi. Dalla prima all’ultima inquadratura Henry è un film suo (e forse il suo migliore) non solo perché è scritto, prodotto, diretto e montato da lui stesso, non solo perché è stato uno degli operatori alla macchina da presa, ma anche e soprattutto perché ha saputo infondervi totalmente il suo spirito e il suo sguardo, i suoi punti di vista (dall’inizio con la tirata sulla cottura della pasta a quella di Sassanelli sulla palma verde che deturpa il paesaggio, alla resa dei vari a parte, nei quali a turno alcuni personaggi si rivelano alla macchina da presa e al pubblico, già presenti nel libro ma molto ben resi).
E perché ha saputo raccontare e fotografare una Roma che nessuno racconta, quella più periferica, quella brutta, sporca e cattiva, melting-pot anche criminale di traffici più o meno loschi, di esistenze svuotate di senso, fatte di solitudini che si intrecciano. Un noir sulla “periferia delle anime” parafrasando lo stesso Piva, che frulla temi e stilemi del genere, sia americano che nostrano, ma va oltre le citazioni di maniera e l’intreccio apparentemente uguale a mille altri. E lo fa proprio perché il regista sa far arrivare la sua cifra autoriale, facendo la differenza.
Henry si è portato a casa il premio del pubblico al Torino Film Festival e se lo merita tutto. Se fossimo in un altro paese Piva sarebbe un cineasta di culto senz’altro maggiore di quello che ha qui, dove “il cinema è morto” come dice con amara ironia il boss del suo film in una scena. Eppure film come questo e personaggi come Piva fanno ben sperare che non tutto è perduto.
Però da spettatori vi è richiesto un piccolo sforzo, diverso dal solito: poiché dal circuito tradizionale delle sale è stato già tolto, Henry dovete rincorrerlo e stanarlo, nei cineclub, nelle piccole sale d’essai, nelle arene, nelle proiezioni speciali. Trovate tutte le informazioni che vi servono sul sito piva.it/henry o sulla pagina Facebook del regista. Che, inoltre, è attentissimo a nuove tecnologie e nuovi media, e segue i suoi progetti non solo nei dettagli produttivi, ma anche letteralmente, fisicamente. Se sarete fortunati assisterete a qualche proiezione in cui lui è presente. Dopo scambierà volentieri quattro chiacchiere con voi chiedendovi le vostre impressioni e altro. Come fosse un commento audio del regista in versione live.
Piva è un indipendente di talento che merita tutto il sostegno e il pubblico possibili. Gli auguriamo un in bocca al lupo per la candidatura ai David del suo documentario e per i suoi progetti futuri, sicuri che avranno sempre un perché, di qualsiasi natura saranno.
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