di Massimiliano Franchi
Ammetto che, nonostante adori il post-rock strumentale, ero titubante sull’andare ad ascoltare e vedere una band del suddetto genere live, per possibili noie e sbadigli derivanti da tempi dilatati, suoni eterei e assenza di voce. Ma dopo aver ascoltato negli ultimi mesi (ahimè, scoperta abbastanza tardiva) i God is an Astronaut, ho sciolto ogni dubbio e sono corso al Circolo degli Artisti di Roma.
La band irlandese capitanata dalla chitarra di Torsten Kinsella sale sul palco in punta dei piedi, presentandosi e ringraziando il pubblico già in anticipo, e subito attacca con le melodie intrise di malinconia e dolcezza di When everything dies e Fragile. Il pubblico romano si scalda lentamente, immerso tra il suggestivo e potente basso di Niels Kinsella e le tastiere sognanti di Jamie Dean, ma si desta e viene coinvolto dalla band da brani pieni di pathos e grinta come Echoes, Fire flies and empty skies o Zodiac.
E i ritmi di Lloyd Hanney si fanno ora concitati e coinvolgenti, ora macigni che accompagnano note cariche di sentimenti alternati tra rabbia e poesia, come in Suicide by star, con il suo incedere lento e raffinato e il finale a doppio pedale violento, mentre le chitarre ruggiscono in Age Of The Fifth Sun o sono divise tra arpeggi deliziosi e aperture distorte come in Loss.
La band dà spazio a tutti i propri cinque album, ripescando addirittura From Oust to Beyond e Route 666 dal loro primissimo lavoro del 2002, e non smettendo di ringraziare per il sostegno e il calore che il pubblico, concerto dopo concerto, dà loro, permettendo loro di continuare a suonare, divertirsi ed emozionarsi come adolescenti. Così, durante l’encore si divertono a scattare foto al pubblico, per testimoniare l’ennesima serata di passione, sudore, fiatone, condensata in un’ora e mezza di pelle d’oca costante.
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