di Paolo Marcacci
“Elisabeta…” e ogni volta giù una risatina di scherno, ma rispettosa al tempo stesso, fin da quella volta che si presentarono, in classe, primo superiore, lì allo psicopedagogico di Via Pietro Maffi, a Primavalle. Forse lei l’aveva notato il primo giorno, in mezzo alla calca, quando ancora il preside doveva chiamare le classi col megafono. Elisabeta con una t, che non avrebbe mai raddoppiato, neppure dopo aver imparato a parlare in romanesco, a intercalare con “Mortacci tua!” per deridere le amiche o aver fatto sparire tutte le doppie che avrebbero dovuto restare lì al loro posto. Fabio sembrava un po’ più piccolo della sua età, forse per questo a volte assumeva, magari suo malgrado, quell’aria così seria ed assorta, da uomo in miniatura, da piccolo duro che non ha bisogno di ostentare i suoi modi. Elisabeta dieci anni in Romania e cinque in Italia, ancora rumena quando chattava con le amiche che erano rimaste a Petra Neamt e che rivedeva ogni estate, più che romana quando se ne andava in giro per Torrevecchia, o fra le vetrine di Via Boccea, al Mc Donald’s di Piazza Pio XI e in ogni sabato pomeriggio alle feste dove Fabio iniziò a scortarla subito dopo essersi messo con lei, ben consapevole del fatto che occhi celeste chiaro e capelli scuri potessero fare più effetto tra i pischelli di Roma Nord che in Transilvania, dove persino Dracula era indifferente a quel tipo di bellezza.
E un anno se ne ando’ così, tra baci sempre più collaudati, cd copiati a raffica, interrogazioni preparate assieme ed assieme schivate facendo sega a Pineta Sacchetti, a meno che non piovesse, s’intende. Un anno che nessuno che non abbia più quindici anni può capire quanto possa essere eterno, nel cuore e nella pelle di ogni prima volta; soprattutto quando è così eterno da volare.
Quella mattina di luglio, dove Via Pietro Maffi fa angolo con Via Pietro Adami, persino i motociclisti che schizzavano tra due file di macchine paralizzate devono aver capito che il modo di stare l’una nelle braccia dell’altro e ciò che c’era nelle loro pupille non faceva parte del campionario usuale di innamorati in miniatura. Elisabeta, mai quell’unica t era sembrata più dolce a Fabio, aveva gli occhi quasi trasparenti, tra le prime rughe di un’espressione di dolore e il piercing tormentato dall’emozione, quasi la pallina fosse l’unica colpevole di quello che doveva succedere. Fabio, che cercò di crescere in un giorno solo in una maniera così maldestra da ricordarsene per tutta la vita, cercava addirittura di rassicurarla, di spiegarle che era per il suo bene se il papà aveva accettato di portare la famiglia a Milano: tempo indeterminato, contributi, tredicesima, assicurazione contro gli infortuni… Soprattutto, Fabio sapeva che in nessun modo Eli doveva piangere, perché allora lui sarebbe tornato ragazzino in un istante, forse più breve di quello che gli occorse per prendersi la cotta dell’anno prima. Una volta la professoressa aveva citato un grande poeta che definiva aprile il più crudele dei mesi; sarà, ma pure luglio mica scherzava. E poi la chat, gli sms, il treno appena avrebbe potuto… Mentre lo diceva, ebbe la premonizione che quelle cose non fanno altro che allungare l’agonia e che, soprattutto, l’amaro in bocca di quella constatazione lo avrebbe risentito, di quando in quando, per tutta la vita. Li mortacci sua, come diceva Eli, anche senza avercela con nessuno. Elisabeta forse era ancora più impacciata perché ogni tanto non poteva fare a meno di tormentare quelle due bolle di zanzara sul braccio destro.
“Pensa che dove vai a abbita’ magari nun ce stanno tutte ‘ste zanzare…” le disse Fabio ad un certo punto, per scrollare, prima di lei, se stesso e solo gli anni, che forse avrebbero fatto sbiadire il sapore dello zucchero filato a Piazza Navona e il freddo dello scooter a gennaio, gli avrebbero fatto capire che in nessun’altra frase avrebbe più messo altrettanto amore che in quella stupidaggine detta per deglutire il dolore.
Porta ancora un ciondolo con una T al collo, Fabio; a nessuna delle sue ragazze ha mai spiegato perché.
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