di Paolo Marcacci
All’inizio non ce ne accorgemmo; meglio: non ce ne volemmo accorgere. Quelli come lui non pensiamo mai che possano capitare proprio dalle nostre parti, che riescano a stabilirsi così vicino a noi. Quando succede, non sai mai come comportarti.
All’inizio ti metti nella condizione di non vederli e non è un discorso di ipocrisia o di convenienza, no: è che il tuo inconscio fa in modo di disattivare quella porzione di campo visivo che comincia a rivelarti la loro presenza, così che per qualche tempo realmente li ignori ma senza bisogno di fingere o di ostentare indifferenza. Il fatto è che per te non ci sono ancora e anche se non arrivo a dire che pensi che non esistano, certamente non credi che possano essercene dalle tue parti, che si mimetizzino così bene tra le persone che conosci. Ne senti parlare ogni tanto, ma come di creature di fantasia o di quelle che abitano nelle situazioni che capitano sempre agli altri, mai a te.
Bisogna dire che è sempre stato della massima discrezione, con noi; scommetto che se fosse dipeso da lui non si sarebbe mai fatto notare. Poi si sa come vanno le cose: ci si rilassa, ci si abitua e si fa meno attenzione sia a tutelare la propria privacy che a non invadere quella altrui. Però parliamo di cose piccole, piccolissime, che non meriterebbero neppure di essere menzionate.
Ci accorgemmo che dormiva poco, che la notte se ne stava a lavorare, anche se non abbiamo mai capito cosa facesse di preciso. Era molto attivo, questo si e per mangiare era solito arrangiarsi: capimmo che preferiva “spizzicare” poco e spesso, piuttosto che concedersi pasti regolari; di sicuro non era schizzinoso, né selettivo: gli andava bene tutto e soprattutto non buttava via niente, come se avesse anticipato la crisi che stiamo vivendo e la necessità di austerità, l’obbligo di diventare più parsimoniosi. Di giorno se ne andava chissà dove, per chissà quali strade e con quali frequentazioni; doveva trattarsi però di tutti quelli come lui, magari non della stessa età ma che condividevano quel modo di vivere, questo si.
Ora che ci penso, non ce l’ho mai avuta con lui, anche perché non l’ho mai visto in faccia: passava rapidissimo e se aveva una qualche curiosità di come fosse la nostra vita non l’ha mai dato a vedere, forse era talmente bravo a curiosare che sceglieva sempre il momento in cui non c’eravamo ed eravamo impegnati in qualche altro posto. Ne ho avuto un po’ paura, questo si, magari l’avrò anche ritenuto capace di molte più cose di quante fosse in grado di farne in verità, però ne avevo sentite talmente tante su tipi del genere che ho iniziato a fare le peggiori supposizioni: che fosse malato, che aspettasse il momento propizio per farci del male, che lì intorno a casa nostra, dalle parti di Primavalle, dove Torrevecchia puoi già quasi chiamarla Monte Mario senza sapere di preciso cosa o quanto manchi per togliere il quasi, a lui sarebbe bastato fare un fischio, a modo suo, per radunare tanti di quelli che vivevano alla sua maniera e renderci la vita impossibile.
Eressi una specie di muro, lo ammetto: volli sbarrargli al strada e chiudergli i varchi, fargli capire che non era certo il benvenuto e che se avesse cambiato aria tutti ci saremmo sentiti più sollevati.
Un bel giorno, ci accorgemmo che non c’era più, forse aveva percepito di non essere il benvenuto o semplicemente a forza di girare s’era potuto concedere una dimora migliore. Di certo non aveva problemi a cavarsela, doveva solo stare attento a questo mondo che sa essere velenoso anche quando appare grazioso e profumato. Ovunque poteva celarsi una trappola.
Alla fine, così com’era venuto, magari chiedendosi cosa ci avesse poi fatto di male, il topo se ne andò via. Bastava solo aspettare.
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