di Francesco Bordi
Il divertentissimo senso di disadattamento di Tanaka Hiro si fa strada prepotentemente sin dalle primissime pagine del romanzo. “Dio odia il Giappone” inizia infatti con la grottesca vendetta del giovane protagonista che in nome di “un atto d’amore sotto mentite spoglie” decide di tagliare con un paio di cesoie tutti i raggi delle biciclette appartenenti a Scott e Kirby: due prestanti missionari mormoni “gaijin” (stranieri) colpevoli di aver sedotto tre delle amiche più belle che Hiro conosceva.
Coupland affida a questo protagonista, davvero di spessore, le chiavi dell’intera macchina narrativa. Il ragazzo è strabiliante perché più si va avanti nella fruizione del testo e maggiormente si rimane stupiti di come questo apparentemente tipico Giapponese sia in grado dare vita a colpi di testa, scatti d’ira e scelte illogiche davvero inusuali in relazione alla norma della sua nazione. Hiro si lancia improvvisamente sulle vetrine dei negozi perché “non avendo alcun talento ha solo questa specialità”. Il vetro non si rompe mai a causa della sua costituzione esile, ma l’unica volta che il vetro si romperà, il nostro (anti)eroe si troverà in Canada dove le autorità e le istituzioni non saranno tenere sull’accaduto. In questo suo bizzarro resoconto di circa sei anni di vita (il periodo a cavallo della fine degli anni ’90 ed inizio anni 2000) il ragazzo ci descrive tutto il suo senso di inadeguatezza verso il suo Giappone, ma allo stesso tempo verso i gaijin. Il suo appartenere ad una famiglia troppo tipicamente nipponica ed il suo sentirsi diverso da un sistema nazionale che pretende un percorso rigidamente standard per tutti i cittadini fa sì che l’attore principale sul nostro palco si crei continue valvole di sfogo per sopportare la sua condizione di semi-fallito, perché tale si è considerati in Giappone se non si entra in un’università prestigiosa dopo gli studi o se non si riesce ad entrare in un grande marchio internazionale. Ecco allora che Hiro si fionda a testa bassa sullo shopping compulsivo buttando così il suo stipendio di venditore di cellulari per strada, si massacra di visioni delle serie animata “Star Blazers” e soprattutto si mette a scrivere una sorta di diario, che alterna alla narrazione portante, dedicato al clone che immagina verrà creato da una sua cellula in un futuro piuttosto vicino. “Caro clone”, una storia nella storia, è una serie di divertentissimi avvertimenti che questo poliedrico ragazzo regala alla sua copia che verrà indicandogli le sue prossime patologie, le sue allergie e sottolineando che non essendo avvenente non avrà mai molto successo con le donne, ma dovrà essenzialmente puntare sulla su intelligenza o sulla sua capacità di stupire. A questo proposito suggerisce al suo clone di lanciarsi contro le vetrine dei negozi…
Se Hiro è alla coinvolgente guida del motore narrativo, i suoi passeggeri non sfigurano. Un piccolo gruppo di comprimari più o meno nipponici ruotano costantemente intorno a lui nonostante Naomi, Tetsu, Moriko e Kimiko non perdano occasione per far, non sommessamente, notare il percorso “perdente” che il ragazzo si ostina a proseguire.
Coupland, da narratore navigato quale è, non trascura alcuna dettaglio nella realizzazione di “God Hates Japan”. La storia che ci racconta parte con le riflessioni e le divertenti vicende di un “cazzone” (perdonate il termine, ma tale è) giapponese, poi prosegue nel comprendere alcune piaghe piuttosto dolorose per la nazione del Sol Levante come il profondissimo senso di disagio della generazione del dopoguerra, le perverse dinamiche delle diffusissime sette che inneggiano alla purezza o ancora il drammaticissimo episodio dell’attentato nella metropolitana del 1995 con il gas sarin che costò la vita e, nei casi più fortunati, “le abilità” di molti lavoratori di Tokyo. L’autore canadese, di cui è palpabile il grandissimo entusiasmo per lo stato nipponico, nel suo delirante e apparentemente squilibrato racconto non si esimie dal regalare ai suoi lettori il colpo di scena che meritano scoprendo così che la famiglia di Hiro non era poi così “tipicamente giapponese”…
“Dio odia il Giappone” è un romanzo che conquista chi lo legge risata dopo risata. In circa 200 pagine di riflessioni e cronache vengono toccati i più disparati argomenti, anche appartenenti all’ambito esistenziale. L’autore conduce il tutto con classe e mestiere e quando la malinconia, che necessariamente subentra in questo tipo di narrazioni, fa il suo ingresso è sempre centellinata ed è costantemente pronta a lasciare il posto, una volta svolto il suo ruolo, alla comicità, all’ironia ed alle sequenze d’azione: memorabile il protagonista che per una serie di coincidenze e scelte mal ponderate si trova ad essere investito da un bob su una pista da sci in Canada con indosso un travestimento da coniglio gigante!
Da sottolineare all’interno di questo gioiellino di romanzo le preziose illustrazioni in stile manga di Michael Howatson che regalano seriamente un valore aggiunto all’intera struttura, sia narrativa che riflessiva, diventando parte integrante dello scritto che risulta così imprescindibile da queste.
L’autore canadese ammicca e rende confidente il suo pubblico fin dalle prime 5 righe del romanzo. Non si riesce a non voler subito bene al povero Hiro e di riflesso al buon Douglas Coupland.
Se Dio odia il Giappone, come scrive dagli Stati Uniti un’alternativa e menomata Naomi in una lettera indirizzata al protagonista, molti di noi lo amano e in fondo anche i Giapponesi probabilmente, per quanto soffrano spesso di quel senso di inadeguatezza, rimangono comunque orgogliosi di essere i figli del Sole. Loro sono così: drammaticamente standardizzati eppure spesso così stupefacentemente geniali. Chi ha avuto modo di conoscerli, ve lo potrà confermare. Giusto Douglas?
Douglas Coupland, “Dio odia il Giappone”, Milano, ISBN edizioni, 2012
Titolo originale: “God Hates Japan”
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