di Francesco Bordi & Antonella Narciso
Nella storia di noi tutti, sia a livello privato che lavorativo, ci sono sempre persone che si inseguono, realtà che si intrecciano, “personaggi” che si rincorrono in alcuni periodi dell’anno per poi tornare alle rispettive vite quotidiane con la tacita promesse di rivedersi e risentirsi nel momento più opportuno per entrambi. Gran Vìa Edizioni e Culturalismi.com percorrono questa linea condivisa a partire quasi dai loro reciproci esordi.
Pare quasi di sentire il lettore malizioso: ecco la classica intervista che quei “culturalisti” si sono acchittati con uno dei loro amici editori, pare quasi di sentirli. Invece dovremo deludervi.
Gran Vìa e Culturalismi sono amici? La riposta è sì.
Il pezzo dedicato a questo editore è motivato dai loro buoni rapporti? La risposta è no
Ed è tale perché l’amicizia con Annalisa Proietti, di fatto la responsabile dell’intera struttura, è nata e si è sviluppata sul campo, fiera libraria dopo fiera, testo dopo testo, scambiandoci punti di vista su un’editoria indipendente che ogni anno cambia ad una velocità impressionante. Vari i testi Gran Vìa letti o recensiti, tanti gli elogi così come tante le nostre osservazioni sfacciate più o meno condivise (e spesso non richieste) sulla natura e sulle potenzialità di un catalogo che abbiamo visto crescere e mutare sotto i nostri occhi… Ma soprattutto, tanto lo stupore di vedere nel corso del tempo una piccola casa editrice che è rimasta fedele a se stessa e che può vantare di essere uno degli esempi più intimamente veraci di editore Indipendente.
Siamo stati accolti in quella che non solo è casa sua, ma è anche il suo ufficio, la sua area lavorativa e creativa, in quel di Narni.
Annalisa Proietti è un fiume in piena. Difficile arginarla (e infatti non ci siamo riusciti). Ancor più complicato è stato condensare più di 4 ore di chiacchiere e circa 70 pagine di sbobbinatura! Il risultato è ciò che avete di fronte ai vostri occhi. Sicuramente non una lunghezza adeguata alla lettura digitale e proprio per non scoraggiare potenziali lettori abbiamo scelto di suddividere l’intervista in tre parti: in queste righe, se vorrete affrontarle, troverete un raffinato condensato del panorama editoriale indipendente degli ultimi anni, il cui spessore è merito di questa artigiana vera dell’editoria che si è messa a nudo senza paura di dichiarare le proprie fragilità imprenditoriali e le proprie incertezze, raccontando contestualmente, con estrema umiltà, i propri successi. A voi Annalisa Proietti ben salda nel procedere lungo la sua… Gran Vìa.
CULTURALISMI: «Diamo subito il benvenuto ad Annalisa Proietti, alla guida di Gran Vìa Edizioni da quasi quindici anni. Quando ci siamo conosciuti eri reduce dal cambio di proprietà della struttura. Ci puoi raccontare come si è svolto questo passaggio dirigenziale ed anche fisico: da Milano, dove lavorava il precedente direttore editoriale, Fabio Cremonesi sin dal 2006, all’attuale sede di Narni nel 2011? Hai avuto un momento in cui hai pensato di mantenere la sede in Lombardia? Hai mai avuto in seguito dei ripensamenti? Ti sei mai pentita?».
ANNALISA PROIETTI: «Sì, esatto il passaggio è avvenuto nel 2011 e… “pentita”, mi chiedete?».
Scherzando con occhi complici e sorriso divertito: «Quasi tutti i giorni». Poi riprendendo il tono da intervistata: «… quasi tutti i giorni c’è quella certa domanda che in realtà nasce spontanea, no? Anche nei momenti in cui sembra andare tutto bene, una casa editrice, soprattutto una struttura quasi monocellulare come Gran Vìa, comporta una mole di lavoro, di impegno, di tempo talmente grande che inevitabilmente più volte mi chiedo se si è fatta la scelta giusta, se era questo che realmente volevo. Le domande sul passato o sul futuro di Gran Vìa sono frequentissime; ciò non vuol dire che poi non piaccia, enormemente, il lavoro che ogni giorno viene svolto.
Andando invece sul cambio di dirigenza il passaggio è stato abbastanza lento. Già dal 2009, fondamentalmente, avevo deciso di impegnarmi in prima persona in questo settore dopo un’esperienza come redattrice di una piccola casa editrice di Pesaro che si occupava prevalentemente di letteratura italiana. Ero entrata come stagista dopo un master per redattori ad Urbino per poi essere confermata diventandone prima redattrice e poi caporedattrice. Ci sono rimasta per quasi quattro anni. È stato un periodo davvero importante che poi, nella sua ultima fase, ha gettato le basi di quello che sarebbe successo in seguito. Io ed una mia collega avevamo convinto l’editore ad aprire una collana di letteratura straniera perché entrambe avevamo questa passione. Proprio allora abbiamo preso i diritti di Guadalupe Nettel, scrittrice messicana che oggi è anche nei cataloghi Einaudi e Nuova Frontiera ma poi è tutto tramontato, o meglio ho preferito io lasciare quel lavoro per divergenze in casa editrice che di lì a pochi mesi ha chiuso definitivamente l’attività. Nel frattempo però avevo acquisito molte conoscenze, capacità ed esperienze, fra cui anche la consapevolezza per quanto possibile di come non fallire. Stavo cominciando a pensare di mettermi in proprio e fare il grande salto. Quegli anni sono stati davvero una palestra importante, ho imparato sia cosa fare sia cosa non fare. Avevo ricoperto tantissimi ruoli: correzione bozze, editing, commerciale, i pacchi! Lì ho capito veramente cosa avrei voluto fare nella vita. Ancora oggi mantengo quella stessa mentalità… da redattrice.
Mi considero un editore redattore.
Il lavoro dell’editore è difficilissimo per mille motivi, ma credo che il lavoro del redattore lo sia altrettanto, perché è l’interfaccia fra la casa editrice e quello che c’è fuori. Occorre filtrare tutto da una parte e dall’altra, bisogna molto spesso essere diplomatici, mediare, incentivare. In quegli anni ho imparato soprattutto a gestire rapporti umani e professionali, infatti oggi io non ho dipendenti, ma collaboratori.
Quello che proprio non sono in grado di ricoprire è il ruolo della grafica. Quel reparto è in mano ad una persona affidabile.
Mirko Visentin c’è dall’inizio, dal 2011, ma era già presente con la gestione di Fabio. All’epoca credo fosse il suo secondo grafico. Ci ha presentati proprio lui a Venezia, dove Mirko lavora, e ci siamo trovati talmente in sintonia che abbiamo anche messo su insieme uno studio editoriale che ancora oggi va bene, quindi siamo legati a doppio filo: offriamo vari servizi che, con i proventi che ne derivano, aiutano la casa editrice a stare in piedi. Nel momento della pausa dovuta al Covid ad esempio, quell’attività è stata preziosa, anche perché lavoriamo abitualmente con strutture come la Feltrinelli e quindi durante la pandemia, quando Gran Vìa era ferma, meno male che esisteva il nostro studio.
Tornando al famoso passaggio, io volevo fondare una casa editrice ex-novo ed avevo incontrato due possibili socie. Una delle due era più propensa ad acquisire una realtà già esistente per bypassare il discorso distributivo che allora ci sembrava particolarmente ostico: benché oggi io sia di tutt’altro avviso, all’epoca condividevo anch’io quest’idea. Volevamo subito una distribuzione nazionale e non pensavamo ad altri possibili escamotage come invece avevano fatto altre realtà quali la SUR degli inizi, che operava in maniera del tutto autonoma con le librerie. Dopo un paio di contatti che non sono sfociati in nulla ci eravamo decise a creare un nuovo marchio, quando poi abbiamo conosciuto Fabio Cremonesi. In realtà lo ha incontrato la mia ex socia. Lui voleva vendere, noi volevamo acquisire fondamentalmente e quindi…
L’operazione è stata molto lunga, credo sia durata quasi due anni.
Non era semplicissimo tra le verifiche, l’acquisizione propriamente detta ed alcuni aspetti da chiarire assieme al commercialista. Tutto questo si ripercuoteva anche nelle fiere: nella fase di transizione eravamo presenti sia io che Fabio nel medesimo stand con i libri della vecchia e della nuova gestione. Era accaduto sia al Salone del libro di Torino che a Più Libri Più Liberi di Roma.
Comunque alla fine io, le mie socie ed il collaboratore siamo riusciti a partire, ognuno con i propri compiti: una per il settore commerciale, io redazione e ufficio diritti, l’altra all’ufficio stampa e c’era già il grafico. Avevamo ovviamente ereditato promozione (Pea), e distribuzione (PDE che poi è diventata Messaggerie).
Con la distribuzione il passaggio è stato abbastanza automatico, invece con Pea ci siamo confrontati più volte sui cambiamenti grafici ed anche contenutistici della nuova casa editrice. Volevamo dimostrare che c’era stata una svolta, ma avevamo bisogno di conoscere la loro opinione perché, al di là delle convinzioni che uno ha, un conto è il redattore, un conto poi è l’editore, c’è poco da fare. Quindi magari uno pensa: sono stata tanti anni in casa editrice e so come funziona, ma poi tutta questa presunzione è venuta inevitabilmente un pochino meno.
La promozione che avevamo così frequentemente interrogato si dimostrava favorevole ad un cambio purché graduale, e chiaramente raccomandava di mantenere alta la qualità e di proseguire sempre con la letteratura spagnola, così come il nome indicava essendo la “Gran Vìa” uno dei viali principali di Madrid.
Tuttavia, vuoi perché una delle socie, oltre che occuparsi di commerciale, traduceva dal tedesco, vuoi anche per l’esigenza di palesare questo cambio, abbiamo deciso di riaprirci ad altre letterature e ad altre lingue che non fossero soltanto lo spagnolo ed è nata la collana altrevie, con i primi titoli subito in pubblicazione.
C.: «Quindi tu non nasci come ispanista?»
AP: «No. Sono laureata in lettere moderne, indirizzo storico e quindi la mia formazione è veramente da redattrice. Era sempre stata quella, anche dopo la laurea e a maggior ragione dopo il master… Nel frattempo le due socie però escono dal progetto, se ne vanno e a quel punto nasce il quesito: continuare oppure no? Avevo fatto, io per prima un errore?
Alla fine ho deciso. Ho lasciato perdere quella prima collana e ho corretto il tiro. In quel momento è nata davvero la nuova Gran Vìa. con me alla direzione, Mirko Vicentin alla grafica e alcuni colleghi che si sono alternati nel ruolo di ufficio stampa prima di arrivare definitivamente a Serena Talento.
C: «Quindi altrevie, la tua prima linea editoriale, è una collana di fatto sospesa. In passato abbiamo recensito, letto ed amato vari testi che venivano da lì. Rimarrà in catalogo? Che ci racconti invece riguardo alle altre collane?».
AP: «Si tratta di una collana che rimarrà sospesa per un tempo indefinito che spero sia breve. È nata in un momento particolare, quello dell’acquisizione, delle problematiche aziendali, quello in cui ti affacci da editore al mondo dell’editoria ma sei anche un po’ stravolto da una serie di lanci che commercialmente non sono andati particolarmente bene, forse anche perché non sono stati pubblicizzati particolarmente bene. Il ruolo dell’ufficio stampa era ballerino. Era tutto un ingranaggio che doveva ancora mettersi in moto. Anche l’acquisizione stessa era stata difficilissima, forse più di una fondazione ex-novo, perché se è vero che magari non abbiamo avuto il problema della distribuzione e della promozione, è pur vero che, forse, abbiamo sottovalutato lo storico che Gran Vìa aveva, ossia quello zoccolo duro di lettori che stavamo perdendo. Nell’ultimo periodo della sua gestione Fabio aveva rallentato le pubblicazioni, però nonostante tutto la casa editrice c’era; probabilmente il passaggio andava affrontato con maggiore consapevolezza o magari con maggiore convinzione, cioè continuando e persistendo con quella linea ispanica. Altrevie invece affrontava le voci di altre nazioni d’Europa. L’idea di far rinascere questa collana c’è, ma va ponderata molto bene e ammetto che in tal senso c’è anche un po’ di pigrizia. Mi spiego…
La “pigrizia” nasce fondamentalmente dalla mancanza di tempo. Se devo gestire la casa editrice e contemporaneamente il service editoriale è difficile, durante quei tre o quattro mesi, concentrarsi anche su altro. Allora, finché mi muovo in un contesto che conosco, il latinoamericano, pur con tutte le manchevolezze (perché non si finisce mai di indagare), ecco che riesco a gestire il tutto. So quali sono i contatti, conosco le agenzie, ho presente quali sono le case editrici a me affini. L’ambito europeo relativo alla primissima collana della mia gestione, lo conosco molto meno ormai. Ho perso i contatti, ho perso l’abitudine a frequentare quei testi ed a fare scouting in quel tipo di letteratura. La leggo, certo, la leggo ancora in traduzione, però non sono dentro ai premi letterari del settore, ad esempio. Mi servirebbe un po’ di concentrazione, tempo ed anche volontà, inevitabilmente, per ritornare a quel contesto così è diverso. Per carità, le modalità sono sempre le stesse: i contratti si fanno in quel modo e via dicendo, però è proprio il contesto di scouting che è completamente diverso.
Inoltre se il successo di alcuni autori europei nel nostro mercato è spesso poco prevedibile, come nel caso di autori della letteratura tedesca che avevamo in altrevie, in ambito sudamericano abbiamo lo stesso tipo di incognite. Forse solo per la Spagna è possibile una minima previsione. Non era il caso di aggiungere incognite su incognite.
C: «Rispetto al resto d’Europa, la Germania effettivamente quasi non esiste nelle pubblicazioni italiane e di conseguenza non esiste nemmeno il raffronto con i lettori nostrani».
AP: «Il raffronto non esiste con la Germania, ma nemmeno con altri Paesi. Per il Sudamerica esistono certamente degli indicatori interessanti: quell’autore ha vinto quel premio, in tre mesi è già arrivato alla quarta edizione del suo libro… ma tutto questo non dà comunque alcuna sicurezza né avvalora o dimostra che hai fatto la scelta giusta a volerlo nel tuo catalogo. Quello scrittore poi, traslato nel mercato italiano, magari fornisce un riscontro neanche lontanamente paragonabile. C’è sempre particolare difficoltà per Gran Vìa ad imporre gli autori sul mercato (perdonatemi il termine). A volte però l’operazione riesce e la cosa bella è che molto spesso, quando succede, quello scrittore riesce anche a trainare gli altri autori scrittori della stessa collana o anche di altre collane. Si tratta di una fortunata dinamica che avviene in alcune case editrici.
Nel nostro caso, probabilmente è successo con Nona Fernández, autrice cilena.
Oggi pubblichiamo letteratura latino-americana con grande gioia. La casa editrice si articola nelle collane gran vìa original, ossia narrativa spagnola e latino-americana che raccoglie e sviluppa quella linea editoriale che aveva attirato i lettori di Gran Vìa fin dalla sua nascita, il nostro zoccolo duro. Poi c’è dédalos, che è dedicata al genere del racconto o meglio la “cuentìstica” latinoamericana. Infine abbiamo diagonal, la collana ibrida nata come commistione di linguaggi letterari. Non si tratta propriamente di saggi, sono magari testi che parlano anche di argomenti storici, lontani del tempo».
Nona Fernandez è presente sia in gran vìa original che in diagonal. Ecco, secondo me quando andiamo alle fiere i lettori vengono da noi perché sono innamorati di Nona.
Me ne accorgo proprio a questi appuntamenti letterari dove si concretizza quel contatto diretto e i lettori ti dicono: “Ah sì, ho letto questo della Fernandez, che altro hai? Intendo di simile”. Oppure, che so, magari con lei hanno scoperto la letteratura cilena e quindi mi domandano se ho qualcos’altro dal Cile. In realtà questo meccanismo di traino c’è e funziona però purtroppo non succede con tutti gli autori, anzi in base alla mia esperienza capita abbastanza raramente. Una volta che arriva qui l’equiparazione con quanto avviene nel Paese d’origine dell’autore non corrisponde quasi mai. Magari segui attentamente i premi letterari del settore, con tutto l’atteggiamento critico che occorre comunque mantenere nei confronti di quel tipo di riconoscimenti e nel corso del tempo, impari a riconoscere quali sono quelli più attendibili e quelli meno, ma una volta portato nel territorio italiano, la riuscita o meno di un titolo, magari pluripremiato, rimane un grande punto interrogativo. Con Nona ha funzionato nel caso del suo “La dimensione oscura”. C’erano davvero tutti i tasselli e mi sono detta: “questa come fa a non andare?”. In effetti è andata! Lo stesso approccio l’ho avuto anche con altri testi, ma senza il medesimo successo. Adesso la motivazione non ve la so spiegare. Non ha nemmeno a che fare con una diversa copertura della stampa.
A questo proposito vi racconto un episodio; abbiamo un libro di cronache letterarie o meglio di giornalismo letterario, “Guerre interne” del giornalista peruviano Joseph Zárate nella nostra collana ibrida diagonale. Quella linea, diagonal appunto, che raccoglie autori con quel quid in più rispetto ad un solo genere d’appartenenza. Scrittori che non raccontano in maniera didascalica, ma sfuggono agli inquadramenti classici del racconto e del romanzo.
Il testo di questo autore era proprio inerente ad indagini giornalistiche su tre fattori che hanno caratterizzato la letteratura spagnola: il legno, il petrolio e l’oro. Argomenti che magari sfuggono a molti europei, no? Noi usufruiamo soltanto dei beni che provengono da lì, ma non sappiamo come quell’oro ci arriva nella realtà dei fatti oppure come il petrolio prelevato impatta su alcune popolazioni indigene. Un testo interessante, bello da leggere, che aveva tutte le potenzialità per avere successo. Un libro anche snello di circa centocinquanta pagine.
Lui peraltro aveva vinto premi su premi. Un autore, giovane, rampante, con una buona rassegna stampa, anzi probabilmente la rassegna stampa italiana migliore che abbiamo mai avuto, anche come copertura. Non c’è stato giornale che in qualche modo non ne abbia parlato anche di straforo, anche semplicemente con un piccolo trafiletto, vuoi anche per la tematica ambientale che era ed è sentita in determinati contesti. Insomma, i presupposti per un successo c’erano tutti, pure le prenotazioni librarie facevano ben sperare! Eppure, nonostante tutto questo, non è andata. Adesso, anche qui, se mi chiedete le motivazioni, io non ve le so spiegare.
I parametri erano gli stessi de “La dimensione oscura” di Nona, ma l’esito non è stato il medesimo. È anche vero che la Fernandez ormai ha realmente conquistato il suo zoccolo duro fra il pubblico.
C: «Una domanda semplicemente matematica tornando proprio al vostro zoccolo duro di fan del Sudamerica… Hai notato differenze rispetto al passato? La precedente proprietà di Gran Vìa era localizzata a Milano, nel Nord Italia, che coincide con l’area con il più alto numero di persone che leggono. È ancora lì il bacino maggiore dei lettori per voi, oppure è cambiato qualcosa con il passaggio dirigenziale?».
AP: «La maggior parte dei lettori si concentra ancora nell’area centrosettentrionale ed è così anche per Gran Vìa. Da qui l’esigenza che gli editori hanno di adottare delle strategie per cercare di fidelizzare nel meridione, ad esempio le fiere. Mi ricordo di essere andata per due o tre edizioni ad “Una marina di libri” a Palermo. Volevo cercare di aprire qualche varco. Va detto che i prezzi sono piuttosto contenuti rispetto ad altre grandi fiere nazionali come ad esempio Roma o Milano e le spese di permanenza decisamente vantaggiose. In quelle occasioni ricordo che qualche piccolo riscontro c’era stato, sia nelle librerie, sia nei visitatori che gli anni successivi magari ti venivano a cercare, portavano amici e ti scrivevano subito dopo la fiera. Diciamo però che per ottenere dei risultati importanti probabilmente occorrerebbe insistere maggiormente nel tempo».
C: «A proposito di Fiere e di tipologie di lettori, la percezione, quando Gran Vìà viene in fiera, è che il pubblico degli avventori sia principalmente composto da donne. Mantenendo come premessa sempre valida che non si deve mai generalizzare, hai per caso avuto anche tu questa sensazione nel corso dei tuoi anni a contatto con il pubblico?».
AP: «Tradizionalmente si dice che le donne siano più inclini alla lettura della narrativa e Gran Vìa è conosciuta come una casa editrice di narrativa. È vero che abbiamo anche, diagonal, questa collana rapportabile alla saggistica, ma non stiamo parlando di saggi puri bensì di testi dal linguaggio ibrido. Persino nella collana con cui siamo partiti, altrevie, c’era il bellissimo testo “Gioventù dorata” che era un saggio, però, sempre filtrato attraverso il registro della narrativa. Siamo percepiti così e me ne accorgo proprio alle fiere in cui effettivamente sono più le donne a visitare il mio stand. Ci sono invece case editrici che hanno un bacino più variegato, ma la fiera è un mondo a parte. Non so se questa tendenza si riproduce anche nelle librerie o in altri ambiti d’acquisto. Credo, ad esempio, che l’uomo acquisti molto più in digitale.
A proposito di donne e di uomini nella letteratura, non so se può essere vero o no, però nel corso delle interviste che rilascio ed ancora durante gli interventi in cui sono chiamata a partecipare, come ad esempio i seminari, mi viene sempre detto: “La tua è una casa editrice prevalentemente femminile”, nel senso che è seguita soprattutto da un pubblico femminile. Che vi devo dire? Forse perché l’editore è una donna, o anche perché c’è un gran numero di autrici donne in Gran Vìa… Sì, tutto vero, ma non penso che bisogna limitarsi a questo. Se al discorso della pura narrativa, che è tradizionalmente più da donne, uniamo anche il fatto che ho in catalogo più voci femminili è possibile che magari questo spinga verso una maggiore identificazione.
Però quando mi domandano se è una cosa voluta, rispondo: “In realtà assolutamente no! Non è voluta”. Semplicemente, credo di essermi trovata in un momento storico in cui la letteratura latinoamericana ha molte voci femminili interessantissime che si palesano non soltanto in Gran Vìa, ma anche in tutte le altre case editrici che si occupano in maniera più o meno specialistica, di letteratura latina. Guadalupe Nettel, ad esempio è nel mio catalogo così come in quello de “La nuova frontiera”. Anche Liliana Colanzi è presente presso più editori. C’è una espressione con cui viene indicato il fenomeno di cui parliamo, nonostante loro la odino per mille motivi: “il nuovo boom della letteratura latinoamericana” che è prevalentemente al femminile. Quindi non è stata una scelta voluta, diciamo invece che andando a fare scouting e quindi a selezionare i miei potenziali autori in quel territorio è molto più facile, in questi anni, imbattersi in scrittrici validissime che non magari in scrittori.
Se poi andiamo sull’incontro con i lettori e sulle manifestazioni d’interesse da parte di chi si avvicina al mio stand, numericamente sono pochi gli uomini che vengono in Gran Vìa e che chiedono, si informano…. È molto più frequente che arrivi una donna a domandare, ma ripeto che non si può generalizzare. Ci sono state delle coppie che hanno amato gli incontri con la mia casa editrice, sia l’uomo che la donna.
C’era una coppia, in varie edizioni del Pisa Book Festival che si è dimostrata sempre simpaticissima: venivano, con il loro cagnetto al seguito, oppure accompagnati da amici, e facevano una specie di grand tour. Si palesavano tutti i giorni della fiera e sfogliavano tutti i libri, passandoseli fra di loro ed interrogandosi: “Che dici? Che ne pensi?”. Erano affiatatissimi e si vedeva che appartenevano alla categoria dei lettori forti. Il primo giorno c’era la scrematura. Il secondo, restringevano ancora la lista. Al terzo giorno, compravano. Una cosa da professionisti! Mi raccontavano che per ogni edizione della fiera, i loro finalisti abituali al terzo giorno, fra tutti gli editori presenti, eravamo noi di Gran Vìa e la Voland.
Loro due erano i miei preferiti, poi però ci sono state anche delle coppie in cui lei era interessata ai testi e lui invece la dissuadeva…».
C: «No dai! Il fidanzato “dissuasore” no!».
AP: Sorridendo, quasi divertita: «capita anche questo in fiera, ma si tratta di un altro tipo di coppia…
Ad ogni modo non sono più andata a Pisa e mi dispiace di non aver visto ancora quella coppia così simpatica che mi vedeva tra i finalisti di ogni edizione.
Il fatto è che quando hanno messo l’ingresso a pagamento, in maniera credo un po’ improvvida, in una città prevalentemente universitaria… Ecco questa cosa mi ha destabilizzato molto. Alla fine di quell’edizione del Pisa Book Festival molti editori, fra cui io, abbiamo firmato proprio una dichiarazione di protesta, chiamiamola così, contro questa decisione perché in effetti Pisa è una città universitaria e si vede! C’erano molti ragazzi che “tiravano su” gli spiccioli per pagare l’ingresso, con difficoltà.
Foto di Antonella Narciso © tutti i diritti riservati
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