di Martina Lacerenza
Certi libri hanno davvero il potere di cambiarti la vita: nel senso che dopo averli letti avverti un cambiamento nel tuo modo di pensare, che può essere impercettibile o agire da subito come un sterzata decisiva nella tua esistenza. Nel mio caso a far esplodere più che una scintilla è stato il libro di uno storico dell’arte tedesco, John Rewald, che racconta come nascono e cosa provocano le prospettive in rivolta: “La storia dell’impressionismo, rievocazione di un’epoca”. È un testo introvabile nelle grandi librerie: a conferma ulteriore di come caratteristiche di rara qualità impongano inevitabilmente una certa dose di ricercatezza. Occorre perciò scovarlo con un po’ di fortuna nei negozi specializzati in storia dell’arte, tra gli scaffali dedicati alla pittura della seconda metà dell’Ottocento. Il grande fascino di questo testo non sta solo nell’aver raccontato la genesi e l’evoluzione di uno dei movimenti artistici più rivoluzionario di tutti i tempi, presentandolo come l’anno zero della pittura nel passaggio definitivo dalla tradizione accademica all’era moderna; bensì nell’aver ricostruito, fedelmente e con dedizione, le personalità e i caratteri degli artisti da cui è nato: particolare che rende pienamente come il valore dell’arte sia proporzionale all’intensità della rivolta da cui scaturisce.
Monet, Renoir, Pissarro, Degas, Cèzanne, Berthe Morisot erano artisti diversissimi per doti e temperamento, ma accomunati dall’aver appreso, lottato e sofferto almeno trent’anni prima di veder riconosciuto il proprio lavoro. I loro quadri venivano infatti puntualmente rifiutati dalle mostre ufficiali, derisi dal pubblico e definiti come il lavoro di un gruppo di folli senza speranza, per i quali un benché minimo successo non sarebbe stato nemmeno pensabile. Mi hanno lasciato senza fiato le pagine che raccontano come gli impressionisti, sebbene emarginati dai contemporanei per il loro modo insolito di osservare e ritrarre la vita, non smisero mai di incontrarsi per discutere di pittura, riunendosi nei fumosi caffè dell’amata Parigi. Qui accadeva spesso che Monet si sentisse a disagio, preferendo restare in silenzio e in disparte per via di un’insospettabile insicurezza, o che Cèzanne si alzasse indispettito per andarsene poco dopo completamente infuriato se Edgar Degas, il più arrogante del gruppo, prendeva il sopravvento nelle discussioni collettive. Egli era infatti, a differenza degli altri, un ricco borghese parigino che odiava la campagna, dall’ ingegno finissimo e sempre pronto alla battuta ironica e tagliente, ma decisamente brusco nei modi: al punto che era celebre per cacciare dal suo studio le modelle in malo modo se i risultati dei suoi quadri non lo soddisfacevano. Tutti erano però mossi da una sensibilità autentica tradotta nelle impressioni fuggevoli e sfumate dell’esistenza catturate nelle tele. Venivano derisi dalla società perché guardavano il mondo da una particolare prospettiva, impressionista nella scelta dei temi ritratti e nello scopo ultimo attribuito alla pittura: dipingere la realtà nel momento in cui sta per lasciarci per sempre, immortalare la sensazione di un momento, di un attimo trasmesso con la tecnica della pennellata veloce e il tocco rapido, perché veloce e rapido è il tempo che fugge. L’uso del chiaroscuro plasmava le forme grazie alla luce, reale artefice dell’impressione, ottenuta attraverso il solo uso dei colori combinati tra loro, abolendo il nero e il bianco che, come predicava instancabilmente Pissarro, non esistono in natura. Da questa sensibilità controcorrente derivano le scene tratte dalla vita del tempo, dalla Parigi Ottocentesca dei caffè sparsi per le strade, delle corse dei cavalli, dell’Opera e delle ballerine dei teatri: opere che raccontano dal vivo l’atmosfera autentica di un’epoca altrimenti sconosciuta, capace di ispirare anche per questo una strana e familiare nostalgia. I retroscena delle loro vite artistiche costellate da innumerevoli fallimenti rivelano come, in molte occasioni, gli impressionisti avrebbero potuto desistere e abbandonare i loro scopi. Non l’hanno mai fatto, nonostante questa lunga e costante serie di insuccessi e mancati riconoscimenti fosse equivalente allo sconforto di un attore costretto a recitare ogni sera in un teatro vuoto. I quadri di Monet, pieni di sole e vento, rappresentano infatti i suoi sogni, la vita che nella realtà gli sfuggiva, dato che condusse un’esistenza densa di sacrifici prima di sentirsi chiamato “maestro”. Come lui anche Renoir era poverissimo: al punto che raschiava via il colore dalle tele vecchie quando non aveva soldi per comprare i tubetti nuovi. Gli impressionisti vivevano per dipingere e, in qualunque momento, avrebbero potuto farlo seguendo i dettami dell’accademismo imperante e ottenere così fin da subito successo e consensi. Non snaturarono mai le loro vedute, perché convinti della loro buona fede, accettando con coraggio di continuare a fare senza certezze ciò che più amavano, sfidando i tempi ed ogni tipo di condizione avversa (non solo climatica). Credo che un insegnamento di questo tipo non sia mai banale. Che poi è proprio il grande merito racchiuso in questo libro dal suo autore: aver descritto l’intensità e la forza della vera passione come una caratteristica imprescindibile di ogni osservazione ispirata, che si condensa nel tormento e nei sospiri di quei talenti in rivolta dove, inevitabilmente, nasce.
Leave a Reply
Your email address will not be published. Required fields are marked (required)