di Massimiliano Franchi
Mark Lanegan Band
(4AD 2012)
Ci sono musicisti che preferiscono un lavoro di sordina, collaborazioni quasi nascoste, voci parallele e si ritrovano a sfornare piccole perle di dischi che saranno ascoltati da un relativamente nutrito numero di fan.
Personalmente adoro questo genere di artisti, mi fa sentire parte di un’elite privilegiata dedita alla qualità più che la quantità.
Tra questi artisti spicca il nome di Mark Lanegan, dall’inconfondibile voce baritonale che per anni ha accompagnato i seattleiani Screaming Trees e si è amalgamata al suono di tante altre band, quali Mad Season, Queens of the Stone Age, Twilight Singers, Soulsavers, Isobel Cambpell.
Dopo 8 anni di varie collaborazioni ha sfornato il suo settimo album solista, Blues Funeral, scritto e registrato per un anno con Jack Irons alla batteria e Alain Johannes come polistrumentista e produttore.
L’album presenta già al primo ascolto delle sostanziali differenze con i precedenti, per la presenza maggiore di synth e innesti elettronici, pur mantenendo la vena blues-indie che lo caratterizza da sempre (“Generalmente scrivo canzoni con la chitarra, ma stavolta ho iniziato un po’ con tastiere e drum machine, per fare qualcosa di diverso” ha dichiarato Lanegan).
Se The Gravedigger’s Song ci introduce con il suo incedere cupo e incessante, Bleeding Muddy Water è una lenta e sensuale dichiarazione blues. Ecco ritmi indie e chitarre tremolanti in Grey Goes Black, mentre il tempo e le melodie rallentano di nuovo con St. Louis Elegy (che vede Greg Dulli, leader di Afghan Whigs e Twilight Singers, ai cori).
Le chitarre distorte e gli strambi assoli di Josh Homme (Kyuss e Queens of the Stone Age) accompagnano il sound decisamente hard rock di Riot in my House, mentre Ode to Sad Disco è ispirata e dedicata a Sad Disco del danese Keli Hlodversson, impregnata interamente da synth e drum machine e con una spettrale chitarra di sottofondo e, così come in Phantasmagoria Blues, si nota la voglia di innovare un classico blues sound con musica elettronica.
Le chitarre acide, le tastiere di accompagnamento e i coretti femminili di sottofondo ricordano decisamente i Dandy Warhols in Quiver Syndrome, mentre Harborview Hospital è una deliziosa e dolcissima ballad con chitarra e synth. Nel groove di Leviathan si respira un blues di altri tempi, così come nell’acustica Deep Black Vanishing Train, mentre l’album si conclude con un connubio tra sintetizzatore e chitarra distorta in Tiny Grain of Truth.
Il tutto risulta equilibrato, innovativo per un personaggio come Mark Lanegan che sembra un’immobile statua musicale, ma in realtà è un eclettico sperimentatore. E dunque l’elettronica non prevale mai sulle chitarre e viceversa, mescolandosi perfettamente in armonie suggestive, per estraniarsi da una realtà sempre più rumorosa, chiudere gli occhi e rilassarsi dal caos contemporaneo, cullati dalla calda e densa voce di Mr. Lanegan.
Per maggiori info, visitare il sito ufficiale dell’artista: http://marklanegan.com
o dell’etichetta discografica: http://www.4ad.com
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