di Paolo Marcacci
Andrea era quello da cui tutte le mamme tentavano di tenerci lontani, se non altro perché era già ripetente e poi passava tutto il giorno in giro, tra Via Della Stazione di S.Pietro e la salita di Monte Del Gallo, dove abitava.
La sua di mamma era una signora sempre molto decorosa e composta, cordiale con tutti ma con gli occhi che non ridevano mai, sempre con un velo di apprensione che ne offuscava la nitidezza. Quando torno nel quartiere e mi capita di incontrarla, forse è proprio per lo sguardo che mi appare sempre uguale.
Non esisteva ancora il termine “bullismo” e il fenomeno non era stato catalogato, né analizzato in televisione da nessuno psicoterapeuta col golfino verde pastello. Però se lo incontravi, capitava che Andrea ti chiedesse se avevi con te il pacchetto delle figurine, che si mettesse a passarlo in rassegna per scoprire se ne avevi qualcuna che gli mancava; quando ne trovò una dal mio mazzo, gliela diedi e mi ringraziò, in modo tale da non farmi mai scoprire se fosse vero o meno che appena gli negavi una cosa ti gonfiava di botte e poi seguitava a minacciarti. Per menare, sapeva menare, questo è certo, come quella volta che lo vedemmo sotto al “tunneletto”, molto tempo prima degli ammodernamenti che la stazione subì per il Giubileo, gonfiare di botte due che giravano sempre assieme a lui e con cui fece pace il giorno dopo.
Quando mi capitò in classe, ripetente di terza media, i primi giorni furono di terrore puro, di occhiate guardinghe e scenate eclatanti, come quando disse a quella d’italiano “Oggi me rode er culo” e quella lo trascrisse sulla nota del registro.
In poco tempo scoprimmo che averlo in classe era un vantaggio, perché al confronto, noi che andavamo così così e che eravamo considerati dei bei rompiscatole, fummo elevati a studenti modello.
Non ricordo come, finii al banco con lui, almeno per un periodo di quell’anno scolastico, ottantacinque-ottantasei, che nei miei ricordi è l’anno di Andrea che stava in classe con noi, delle ballerine di “Drive in”, di una pubertà mal gestita e di pomiciate più sognate che messe in pratica, onestamente. L’anno di Roma-Lecce, anche: le prime grandi disillusioni della vita per me sono arrivate sotto forma di sentenze calcistiche, lutti mai del tutto elaborati.
L’ho rivisto davanti ad una scuola, dalle parti di Via Madonna Del Riposo, Andrea, col cappellino e la paletta, a dirigere l’uscita dei ragazzi. M’avevano detto che aveva preso una “botta” con gli acidi, tempo fa, talmente forte da costringerlo a rimettersi la lingua in bocca con le mani, quando parlava troppo. M’ha imbarazzato incrociare il suo sguardo, senza sapere se avesse la lucidità necessaria per riconoscermi. M’ha lasciato interdetto quell’aria da cane bastonato, quasi sfottuto dagli Andrea di oggi con zainetto e cellulare; certo non tanto interdetto quanto quella volta in cui, dopo l’episodio delle figurine venne a cercarmi in classe e mi costrinse, con le mani che mi tremavano, a scegliere una figurina in cambio di quella che gli avevo dato.
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