Adrenaline Mob. “Omertà”

di Claudio Consoli

(immagine da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/en/c/cf/Adrenaline_Mob_-_Omerta.jpg)Non cambierà la storia del rock, probabilmente non è un disco originale né qualcosa di mai sentito prima, si possono anche nutrire dubbi fondati sulla longevità del progetto ma la domanda che mi sono posto, da appassionato e cultore di Rock duro è: ” Come diavolo “suona” questo disco?” e la risposta è semplice e diretta come l’anima stessa di questo genere musicale dovrebbe essere: “Dannatamente massiccio!” e tanto mi bastava!

Cominciamo dal principio: il 9 settembre 2010, dopo 25 anni dalla loro fondazione, Mike Portnoy annuncia la sua separazione dai Dream Theater, gruppo icona del Progressive Metal e creatura curata maniacalmente dal batterista americano, universalmente riconosciuto come uno dei migliori ed influenti sulla scena; a seguito dell’annuncio shock il buon Mike collaborerà per circa anno con gli Avenged Sevenfold dopo la scomparsa del loro ottimo batterista Jimmy “The Rev” Sullivan, dichiarato estimatore del drummer dei Dream Theater. Finito Il suo periodo con la band californiana, nel 2011 decide di dar vita al progetto Adrenaline Mob insieme a Russel Allen cantante dei Simphony X e Mike Orlando virtuoso ed ipertecnico chitarrista impegnato in vari progetti e collaborazioni fra le quali spicca quella con un altro mostro della chitarra: Zakk Wylde (ex chitarrista di Ozzy e fondatore dei Black Label Society).

La super band, come spesso vengono definiti questi side project di musicisti ufficialmente impegnati con altri gruppi, comincia a far esplodere le sue sonorità potenti e molto groove in alcune performance live, da cui ricavano il loro primo video ufficiale, una energetica e ipertrofica versione di “Mob Rules” classico dei mai troppo osannati Black Sabbath; ad agosto 2011 rilasciano un EP omonimo nel quale troviamo la suddetta cover e quattro brani che poi confluiranno nell’album oggetto di questa recensione uscito recentemente.

Come dicevo in apertura questo disco non aggiunge o toglie niente alla cultura musicale dell’appassionato di sonorità Hard&Heavy ma ho scelto di recensirlo e proporlo perché in un periodo in cui la scena si è frammentata in innumerevoli sottogeneri e correnti a volte difficilmente comprensibili o distinguibili fra loro se non nelle dichiarazioni di circostanza dei loro alfieri, spesso costruite con acume ed ingegno in fase di produzione e marketing, la musica degli Adrenaline Mob nella sua prevedibilità compositiva e di arrangiamento presenta però l’evidente pregio di far sentire a casa tutti quelli come me che essendo ormai cresciuti e avendo maturati gusti molto più eterogenei rispetto alla ribelle semplicità dell’adolescenza, si sentono sempre e comunque dei Metaller!

Ben vengano dunque i “fischi” vintage della chitarra di Mike Orlando o i suoi assoli a volte ruffiani ed a volte ostentatamente tecnici; assolutamente promossa la performance vocale di Russel Allen che in questa versione viscerale e roca mi è piaciuto parecchio e pollice alzato anche per la prova di Mike Portnoy che poteva suscitare preoccupazioni a chiunque conoscesse bene la portata di questo batterista il cui ego a volte può risultare anche musicalmente invadente.

Il dubbio era infatti se Portnoy sarebbe riuscito a trovare una collocazione più classica al suo ruolo nell’ottica di un gruppo di stampo più tradizionale, dunque senza la possibilità tipica del Progressive, di ritagliarsi parti da protagonista all’interno dei pezzi, di norma assestati su durate oversize e composizioni spesso avventurose e complesse: il drumming risulta perfettamente riconducibile allo stile di Portnoy, preciso, potente e prolisso nell’uso di drumset spesso mastodontici, con fill che a volte sembrano eccessivi o esagerati ma che poi, in fondo, finiscono sempre per colpire il segno grazie alla tecnica d’esecuzione.

Analizzando le tracce, il disco parte forte con “Undaunted” nella quale Russel Allen esibisce un cantato molto ritmato di stile quasi NuMetal che però recupera un timbro genuinamente metal soprattutto nel ritornello con una voce graffiante ai limiti del growling; la chitarra è massiccia e la batteria è presente e funzionale.

In “Psychosane” troviamo un esempio di quanto suddetto circa la chitarra citazionista e “scolasticamente” tecnica ma efficace di Orlando soprattutto nell’assolo, pieno di distorsioni fischianti e Wah Wah insistito.

“Indifferent” invece ci porta le prime aperture melodiche del disco soprattutto nel ritornello molto radiofonico con eco di rock più commerciale che ricorda band come i Nickelback.

Lo scorcio melodico si prende invece la scena in “All on the line”, classica ballata con sound molto fine anni 80, pezzo piacevole ma sostanzialmente innocuo.

Come attenta pianificazione della tracklist prevede, ecco seguire un pezzo molto più veloce e cattivo dei due precedenti: “Hit the wall” ci porta un solido cantato molto testosteronico , chitarra molto presente ed un drumming infarcito di brevi e veloci interventi di doppia cassa e pelli picchiate con forza.

“Feelin me” risulta essere un pezzo abbastanza ordinario senza particolari elementi di spicco che sembra più che altro preparare la strada a “Come undone” cover dei Duran Duran e pezzo probabilmente più riuscito dell’album che può anche fregiarsi della voce di Lzzy Hale chitarrista e voce degli Halestorm, gruppo piuttosto interessante tra l’altro, che fa da perfetto contraltare a quella di Allen.

A seguire c’è “Believe Me” che fa dunque della parte centrale di “Omertà” il suo momento migliore: il pezzo contende nei miei gusti la palma di migliore al precedente grazie a riff molto incisivi, un ottimo Portnoy e parti di chitarra che nel ritornello risultano particolarmente azzeccate melodicamente ed un assolo che seppure risenta come spesso accade ad Orlando di un certo eccessivo uso di tecnica a discapito del groove, qui si guadagna una menzione soprattutto grazie alla buona scelta dei suoni.

Di nuovo “Down to the floor” non ci porta nessun particolare brivido essendo un altro solido pezzo e niente più a cui fa seguito “Angel Sky” ballad(immagine da http://www.metallized.it/public/articoli2/1329235209mzd.jpg) particolarmente ruffiana e che quindi centra facilmente il bersaglio: anche rudi capelloni, tatuati e apparentemente cattivi hanno in fondo un cuore e le ballate Hard Rock o Metal cercano di dimostrarlo da una trentina d’anni.

Il disco si chiude con “Freight Train” che con una certa circolarità rispetto ad “Undaunted” è una canzone molto ben suonata e confezionata con un cantato di nuovo in bilico tra potenza e ruvidezza metal e parti più ritmiche e cadenzate, batteria molto dura e veloce e chitarra di rincorsa.

In definitiva un disco che non sfigurerà affatto in ogni buona collezione hard e regalerà una paradossalmente fresca ventata di buon vecchio metal che mi piace immaginare (ed attendo di ascoltare e vedere a giugno all’Orion di Ciampino) erompere da una massiccia colonna di casse a spettinare voluminose e lunghe chiome (che ormai io posso solo sognare).

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