di Francesco Bordi
La domanda che la maggior parte dei curiosi si potrebbe immediatamente porre nell’osservare la copertina del saggio cinematografico di cui andiamo ad occuparci sta proprio nel titolo: “Richard Linklater L’età inquieta”, di Fabio Migneco. Chi è questo R. Linklater? È un regista? È uno sceneggiatore? È uno specialista della fotografia? Quindi, successivamente, ci si potrebbe banalmente domandare “Perché scrivere un saggio su un illustre sconosciuto? Forse per uno scarsamente utile bisogno di divulgazione fine a se stesso?”. Ad una domanda, anche cretina, può esser sempre data una risposta intelligente, così diceva una professoressa di filosofia molto preparata nel corso dei miei anni di liceo. Allo stesso modo risponde l’autore del saggio attraverso una disciplinata ed esaustiva analisi dell’arte cinematografica di Linklater: un regista statunitense che ha alternato ed alterna tuttora successo di pubblico, successo di un certo tipo di critica e successo nelle vendite home-video. Se la parola “successo” viene menzionata in questa sede, allora come mai questo nome proprio ancora non ci dice nulla?
Il regista texano è troppo raffinato e cinematograficamente “timido” per esser noto al grande pubblico. È il poeta dell’attimo che si interpone tra gli anni giovanili e gli anni della maturità. I protagonisti delle sue pellicole non hanno mai più di quaranta anni, tranne rare eccezioni, e vengono tutti colti nelle fasi cruciali della loro vita; sono tutti spiati nella loro “età inquieta”.
L’autore si esprime con molto affetto nei suoi confronti, ma questo non toglie obbiettività alle sue analisi. Risulta piuttosto difficile non voler bene a Linklater perché fondamentalmente è quello che si è soliti definire come “uno di noi”: non tratta di storie che mirano a sconvolgere lo spettatore, non plasma i suoi personaggi per confezionare il “botto” al botteghino (o blockbuster per gli addetti ai lavori). Il ragazzo di Austin ci parla della difficoltà nelle relazioni uomo – donna nelle fasi critiche, con rara sensibilità accenna al complesso rapporto giovani – adulti o ancora ci delinea con realistico disagio lo stato d’animo della malinconia o del rimpianto… Fin qui sembrerebbe la descrizione di un cineasta noioso ed eccessivamente garbato, ma è proprio ora che salta fuori l’impossibilità di incastrare Linklater in una precisa categoria. Come giustamente fa notare Migneco, non ci sono film del director texano definibili come “le sue pellicole classiche”. Richard è sempre diverso: sensibile ma realista, garbato nei contenuti ma anche scurrile e volgare in alcuni dialoghi. Ha trattato di sport, come in “Bad News Bears” (2005), ha quasi sproloquiato di musica in “School of Rock” (2003), forse la sua pellicola più famosa in Italia, e ancora ha giocato con nuove tecniche cinematografiche in esperimenti come “Waking Life” (2001) in cui è presente l’utilizzo del cosiddetto “rotoscoping” e “A Scanner Darkly” (2006), girato interamente in digitale, ed ha quindi esplorato i retroscena del mondo teatrale nella pellicola “Me & Orson Welles” (2009).
L’autore del saggio si è evidentemente ben documentato sul nostro regista statunitense assai vicino alla sensibilità europea. Dopo aver affrontato la sua biografia, le sue pellicole e ancora dopo aver vagliato le interviste, comunicato i progetti futuri ed esaminato con grande senso di completezza la raffinata scelta ed il sapiente utilizzo che il cineasta fa delle colonne sonore, giustamente Fabio Migneco denuncia la colpevole mancanza di un riconoscimento internazionale all’autore di storie e scene a metà fra il quotidiano e l’intellettuale realizzate con un tocco talmente delicato che quasi fa dimenticare la presenza di un regista, anche all’occhio del critico più avvezzo. Non va dimenticato a tal proposito che il buon Richard, a seconda delle situazioni, ha saputo scoprire, valorizzare e lanciare nomi assai noti del calibro di Ethan Hawke, Ben Affleck, Matthew McConaughey, Milla Jovovich, Jack Black, Billy Bob Thornton e Keanu Reeves senza contare il fatto che si è guadagnato la stima sul campo di colleghi, nonché amici, i cui cognomi suonano come Tarantino e Rodriguez. La motivazione sta nel fatto che Linklater segue caparbiamente i SUOI progetti, incurante del botteghino, dei premi e dei rischi derivanti dal portare avanti alcuni progetti considerati molto pericolosi, commercialmente parlando. È un grandioso indipendente che è riuscito a valorizzare anche i dialoghi delle sue creature, risultando così un abile professionista anche nella scrittura, ma da lui stesso sappiamo che, al momento di far ballare i vari “CIAK!”, il regista (che è in lui) licenzia lo sceneggiatore (che è in lui). Si tratta di un uomo innamorato del suo lavoro, un uomo che vuole bene alla macchina da presa ed alle persone-caratterizzazioni che quella riprende. Fabio si è a sua volta innamorato dell’ umile grandezza di Richrad Linklater nel descrivere le inquietudini tra i venti ed i quaranta e nel confrontarlo con i colleghi coevi ha colto anche lo spunto per ragguagliarci qua e là sul cinema degli anni ’90. Noi, quando è stato il nostro turno, abbiamo amato la scelta dello scrittore di puntare abbastanza coraggiosamente, in Italia, su un regista così timido e di una così grande personalità indipendente allo stesso tempo.
E voi che ne pensate? siete pronti a cimentarvi con i (vostri) fantasmi dell’età inquieta?
Migneco, Fabio, “Richard Linklater L’età inquieta”, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2011.
Per maggiori info sul titolo è possibile scrivere a francesco.bordi@culturalismi.com
Per maggiori info sulle modalità di acquisto: http://www.falsopiano.com/
Per ulteriori info sulla scrittura dell’autore: https://www.culturalismi.com/culturalismi/recen-sms-ioni/
Leave a Reply
Your email address will not be published. Required fields are marked (required)