di Ornella Rota
ROMA. Se sia un grande film te ne accorgi subito, dai titoli di testa. Come nelle interviste, un paio di frasi e intuisci il livello dell’ interlocutore.
Mino Fuccillo è originale generoso ironico rapido. Ha coraggio intellettuale. E soprattutto è intelligente.
“Nella storia è accaduto sempre”, osserva, “che le comunità costrette a ridurre più o meno drasticamente il tenore di vita abbiano avuto reazioni violente, finendo in una guerra una rivoluzione un fascismo chiamalo come ti pare. Oggi l’Occidente è di fronte a un problema di questo genere; deve accettare, distribuendola negli anni prossimi, una profonda torsione dei suoi consumi, del suo modo di produrre redditi, delle garanzie. Torsione, non necessariamente taglio. E per la prima volta questa specie di legge storica potrebbe forse essere smentita. A soccorrerci potrebbe essere proprio quella nostra opulenza iniqua, quel reddito medio di 39.000 dollari procapite (dato desunto da UNDP, International Human Development Indicators 2011, ndr) che oggi è ripartito in maniera assolutamente ingiusta, ma del quale una piccola pur se consistente redistribuzione riuscirebbe presumibilmente a scongiurare il pericolo che la torsione travolga tutto, compresa quella che chiamiamo democrazia”.
L’approccio è alto, da docente di filosofia _ qual è stato all’università di Napoli, per alcuni anni _ prestato al giornalismo per una bella e lunga carriera.
“In Europa, specificamente in Italia”, prosegue, “assistiamo a problemi di disagio anche profondo ma non (ancora) a fenomeni di pauperismo come negli Stati Uniti. E’ vero che da noi i pensionati mantengono figli e nipoti, che tutta la ricchezza accumulata sta svaporando, ma è soprattutto vero che non produciamo più ricchezza. Possiamo però ricominciare a farlo, avviando adeguati meccanismi e, per riprendere una metafora abusata, vigilando sulla rotta per evitare la collisione con l’iceberg. Per scamparla, al Titanic sarebbe stata sufficiente una deviazione minima, diciamo un paio di gradi: anche a noi basterebbero. Il nostro iceberg sono le elezioni. Sarò poco democratico, ma se interpelli i popoli direttamente interessati alle torsioni, riduzioni, tagli, in definitiva ai sacrifici, la risposta sarà sempre negativa. In questo senso, e non per la formazione dei vari governi tecnici, i meccanismi automatici della democrazia oggi rischiano”.
Da qualche mese Mino Fuccillo cura, alle 20 di sabato e domenica, la rubrica “Il Punto”, su Rainews 24, un canale atipico, nella nostra televisione, per la professionalità e il buon gusto di tutte le persone che vi lavorano (cominciando dal direttore Corradino Mineo).
“Certamente capisco”, riprende, “le perplessità nei confronti di un “governo dei banchieri”. Però se vogliamo proprio popolarizzare, volgarizzare, mi viene da dire che l’alternativa è il governo degli impiegati bancari, perché è ormai questo lo spessore professionale, culturale e operativo del nostro ceto politico. Non si offenda l’impiegato allo sportello; potenzialmente, è magari un grande professionista, però sta lì, tu gli dai un assegno, lui mette una firma e te lo gira. Allora, battuta per battuta, occhio ai banchieri certo, però meglio loro dei bancari”.
Se il governo Monti riuscisse a durare 18 mesi e più o meno a funzionare?
“E’ solamente un’ipotesi, i margini sono molto stretti in termini sia temporali che di probabilità. La “maggioranza bulgara” al Senato e alla Camera è un po’ un’immagine olografica, un’ illusione ottica. Di fatto, finché lo spread rimane sopra i 400, Monti può contare sui tanti voti per approvare i vari provvedimenti (presentandoli a pacchetto per evitare l’effetto carciofo: ogni partito toglierebbe una foglia). Nella realtà però, questo è un governo di minoranza. Solamente il Terzo Polo e il PD (con qualche perplessità) sono d’accordo a sostenerlo fino al termine della legislatura e per tutte le misure. Il PdL lo appoggia principalmente perché in caso contrario teme di frantumarsi. Di Pietro aspetta l’occasione per andarsene, e sente pure la pressione di Vendola che in Parlamento non c’è ma fuori sì.
Comunque, nell’ipotesi che il governo Monti riuscisse a durare e a funzionare fino al 2013, l’attuale geografia partitica ed elettorale subirebbe uno smottamento tipo tettonica delle placche, o deriva dei continenti, come si diceva un tempo”.
Cioè?
“La Lega, che ha scommesso sul fallimento di Monti, finirebbe con il marginalizzarsi, diventando una sorta di sindacato territoriale che farà fatica a stringere alleanze politiche con chiunque.
Vendola e Di Pietro popoleranno e colonizzeranno territori di pubblica opinione e di elettorato, ma saranno “continenti” staccati e marginali, un po’ come L’Australia.
Il PD _ che Bersani ha pronosticato poter diventare “il partito del secolo” in proporzione e in premio alle responsabilità che si assume _ potrà correre veloce ma, come una bicicletta, se si ferma cade. Riuscirà a vincere elezioni solamente accompagnando qualcun altro (Pierferdinando Casini e il Terzo Polo? Oppure Vendola e Di Pietro?), anche a governare ma non in prima persona.
Il PdL senza Berlusconi potrebbe in piccola parte trasformarsi in una destra antieuropea rancorosa e in parte più consistente tornare a essere quella formazione politica che in Italia c’è sempre stata, ben prima di Berlusconi, cioè un partito conservatore moderato, di destra o di centro destra. Potrebbe subire una migrazione contenuta ma significativa verso una UdC, o meglio un Terzo Polo, che si allarga e a sua volta si evolve in partito riformista moderato.
Il Terzo Polo potrà fare a meno della Lega, esercitare una Opa incompleta ma sicura su parte dell’elettorato del Pdl, qualificarsi come partito europeo ammesso che l’Europa esista ancora, offrire al Pd di governare insieme _ e con chi altro sennò? _ a Palazzo Chigi. Se poi il Pd rifiutasse, potrà proporre e far vincere niente meno che una destra senza i deliri e le illusioni berlusconiane”.
Tutto questo dal punto di vista strettamente politico. Ci sarebbero contraccolpi anche sul costume, sul modo di pensare, sul linguaggio.
“Spero soprattutto che, a destra e a sinistra, riusciremo a ricuperare gradualmente il senso della realtà, in politica e non soltanto. Rendendoci conto, ad esempio, che di fronte a un fatto importante abbiamo disimparato a chiederci se ci sembri plausibile o no, se sia congruo o no; e che ci esprimiamo quasi solamente a slogan, ad affermazioni nel migliore dei casi ideologiche, nel peggiore propagandistiche. (Significativo che sui giornali filo berlusconiani e su alcuni della sinistra radicale non di rado si leggano, in questo periodo, medesimi dubbi, recriminazioni, parole d’ordine, a volte invettive).
Del resto, com’è stato raccontato, Monti? Con i soliti vizi: o santo subito o l’uomo nero. E quando, in aula, né lui e i suoi ministri dicono “non metteremo le mani nelle tasche degli italiani” e nemmeno “anche i ricchi piangono”, percepisco un certo disorientamento, una certa difficoltà nel capire proprio di cosa si stia parlando.
E tuttavia, dovendo scegliere fra l’ opinione di chi crede sia stato Berlusconi a produrre quest’Italia o l’inverso, opterei per la seconda ipotesi. Da un punto di vista antropologico e storico infatti, l’elettorato italiano è abbastanza coerente con se stesso: premia chiunque prometta di esentarlo dalla fatica di cambiare, in definitiva dalla contemporaneità. E’ successo con Mussolini, con Berlusconi, con la sinistra e con quanti altri. Questo fenomeno certamente si verifica ovunque, ma qui è forse più accentuato, per ragioni storiche e non soltanto.
Da noi, il riformismo, di destra o di sinistra, elettoralmente è (stato) sempre minoranza. Piattaforme riformiste sì, ne sono state elaborate, poi però la base regolarmente non ci sta. Per lo più, la politica viene intesa dagli elettori come acquisizione di possibili vantaggi in termini di territorio geografico o di gruppo sociale o di corporazione, e dagli eletti come refrazione dell’umor popolare attraverso i sondaggi. Tant’è vero che, nell’ottica di stimolare la crescita, c’è voluto un governo degli ottimati svincolato da calcoli elettorali, per tentare un intervento vagamente riformista (e di assoluto buon senso) quale sarebbe la sostituzione dell’attuale sistema tutto impostato sul lavoro nero/precario con un altro sistema basato invece su contratti a tempo indeterminato che non siano però un’assunzione a vita”.
C’è un retaggio specifico del quasi ventennio berlusconiano?
“La liquefazione di ogni concetto di ceto dirigente. Intendo di un gruppo di persone che, profondamente diverse per tipo di professionalità e di cultura, siano però capaci di concepire e condividere questo pensiero semplice semplice: che per tutelare gli interessi propri bisogna a un certo punto badare anche a quelli generali, della comunità. Incentivata dalla borghesia o dal proletariato o dai cenacoli illuministi o da altre realtà, chiamale come ti pare, in ogni società è esistita questa consapevolezza. Da noi si è squagliata; non c’è più né passato né futuro, viviamo una sorta di eterno e allegro 8 settembre”.
Mi viene in mente un’espressione francese molto bella e non facilmente traducibile: élever le débat. Ecco, significa parlare così.
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