di Fabio Migneco
Tra i saldi di fine stagione, proprio a ridosso dell’inizio della nuova con l’avvento del prossimo autunno, la 01 distribuisce nelle sale italiane dal 24 agosto Professione Assassino – The Mechanic, remake con Jason Statham dell’omonimo film datato 1972 con Charles Bronson protagonista.
Il film è l’ennesimo veicolo per sfruttare le doti dell’attore inglese ormai unica vera icona del cinema d’azione contemporaneo e come tale è strutturato, con una trama elementare finché si vuole ma del tutto solida e affidato al mestiere di Simon West (indimenticato regista di quel Con Air che è uno dei più grandi guilty pleasures di sempre) e alla bravura degli interpreti, oltre a Statham nel ruolo di Arthur Bishop, abbiamo infatti Ben Foster e Donald Sutherland, al secondo film insieme a Statham dopo The Italian Job, in una delle sue apparizioni speciali che negli ultimi anni costituiscono gran parte della sua filmografia.
Bishop è il killer perfetto, il meccanico del titolo, per il quale uccidere è appunto solamente un lavoro come un altro, al quale un bel giorno ordinano di far fuori il suo stesso maestro e mentore, Harry McKenna (Sutherland), accusato di aver tradito l’organizzazione. McKenna ha un figlio, Steve (Foster), desideroso di imparare il mestiere di assassino, che si rivolge a Bishop senza sapere che è stato proprio lui a far fuori suo malgrado suo padre. Questo l’assunto, poi la trama segue abbastanza fedelmente il prototipo pur discostandosene per quanto riguarda le scene d’azione tout court, fino al finale a sorpresa (forse, se siete spettatori un minimo navigati non vi sorprenderete poi molto e questo è uno dei limiti dei remake: le trovate di trent’anni fa avevano ben altra eco e peso specifico prima e qualcosa di innovativo trent’anni fa è stato visto e rivisto finora).
La sceneggiatura del remake è dello stesso autore del film originale, Lewis John Carlino, che qui scrive insieme a Richard Wenk, le scene d’azione sono robuste e ben congegnate, ci sono un paio di corpo a corpo davvero niente male, un assalto nella parte centrale al blindato dei cattivi di turno, diverse esplosioni tra cui quella del finale; c’è un pizzico di sesso in una rapida scena hot del buon Statham impagabile nel suo essere più interessato alla missione successiva che alle grazie della donzella in questione; c’è un buon ritmo di fondo che garantisce il divertimento dello spettatore che, specie se fan accanito del genere action, non mancherà di trovare la pellicola un solido intrattenimento.
Il confronto Statham – Bronson è impari e ingiusto per entrambi, limitiamoci a dire che ambedue, ognuno a modo suo, sono delle icone, mentre per quanto riguarda l’originale e il remake, non si può fare a meno di notare come quest’ultimo sia assolutamente figlio del suo tempo, privo com’è di quell’approfondimento psicologico e introspettivo del predecessore. Esattamente, quello del 1972 era si un film d’azione (e oggi è considerato tra i classici sottovalutati del genere), ma era anche un viaggio nella mente del killer interpretato con algida maestria da Bronson. Nella moderna versione Statham è accattivante ma dei tormenti originali del personaggio resta poco. Il Bishop di Bronson da roccia che era cade man mano in depressione, la scorza del duro killer si sgretola, e lo spettatore segue la sua vicenda di cinismo e ineluttabilità facendosi testimone di quello che è anche un tentativo di entrare nella mente di un disadattato, un alienato che se non fosse per Steve (nell’originale Jan Michael Vincent) non avrebbe alcun contatto umano e quando verrà tradito proprio da questo, è come se già lo sapesse, se lo aspettasse, sentimento che dà vita al finale col botto, repentino e senza appello che pur essendo simile a quello del remake, risulta più cupo e disperato (Bishop-Bronson muore oltretutto). Inoltre c’è l’abissale differenza tra il cinema classico e la regia di Michael Winner (che di lì a poco avrebbe firmato sempre con Bronson Il Giustiziere della Notte) e quella moderna e rocambolesca come vuole il pubblico oggi, o meglio alla quale il pubblico è stato abituato, di West nel remake. Basti pensare all’incipit dell’originale una lunghissima sequenza di circa un quarto d’ora senza che nessuno dica una parola, con la sola musica (poca peraltro) ad accompagnare la macchina da presa mentre segue Bishop che si prepara per un colpo e ci mostra poi alcuni momenti della sua routine giornaliera. Un inizio impensabile oggi, che si prende i suoi tempi e dà modo allo spettatore di ragionare e di farsi una sua idea, al contrario di quello del remake che espone tutto e subito, sempre all’insegna della spettacolarità a tutti i costi.
Non necessariamente l’originale è meglio del remake, semplicemente sono cose completamente differenti pur avendo la stessa base e la versione con Statham resta un divertissement godibile ma che certo non ambirà mai al ruolo di classico ottenuto con gli anni dall’originale.
Qual è quindi il senso della pratica del remake oggi, specie se non aggiunge nulla né reinventa la storia da cui è tratto, continua a sfuggire a molti, se non fosse per l’unica spiegazione plausibile: la crisi delle idee e lo sfruttare fino all’ultimo qualcosa che ha già fatto soldi in passato, perché ad Hollywood è principalmente questo che conta. Detto questo Professione Assassino è il classico prodotto per due ore di svago puro e totale, chi ama l’azione si faccia avanti, pop corn alla mano, non butteranno i loro soldi, tutti gli altri si astengano.
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