Immagini senza luogo e senza tempo che diventano stuzzicante oggetto di alto studio. Dicci Paolo…

di Ornella Rota  

(immagine da http://www.gratis360.it)All’inizio degli anni 2000 c’erano nel mondo uno scarso dieci per cento di utenti della Rete: oggi sfiorano il 40 per cento. Se l’impennata continuerà con questo ritmo, gli sconvolgimenti sono davvero non prevedibili, sia sulla vita individuale che collettiva, tanto a livello culturale quanto sociale.

A livello culturale sono gradualmente travolti i tradizionali codici di comunicazione: le immagini digitali viaggiano con una velocità inimmaginabile nel passato, ben sovente si avvalgono di canali fuori dai controlli istituzionali, raccontano e documentano le infinite realtà del nostro pianeta. E offrono a ognuno di noi  la possibilità concreta di verificare verità e versioni ufficiali, di opporre e proporre altre verità e altre versioni, testimonianze, scoperte. Con un effetto che può essere scardinante; per averne un’idea basta ricordare il gran clamore a suo tempo suscitato da un fenomeno peraltro assolutamente diverso come lo è stato Wikileaks, che in realtà non avrebbe impressionato nessuno, se gli organi di informazione, compresi i più radicali, sapessero fare il loro mestiere.  

A livello sociale si stanno ridisegnando nuove classi: in un’ipotetica mappa tracciata sulla base dell’accesso al digitale dovremmo porre Nuova Delhi più o meno nei sobborghi di Londra, ma allo stesso tempo i sobborghi di Nuova Delhi apparirebbero distanti da Londra quanto la Papua Nuova Guinea. Come dire che sta nascendo una sorta di middle class radicalmente diversa da quelle che conosciamo: indipendente dal luogo, indifferente a confini e frontiere, sensibile a nuovi parametri, valori, comportamenti, metri di valutazione.

La problematica della progressiva diffusione planetaria del digitale è al centro del progetto di studio “Le politiche dell’uomo digitale”, che Paolo Favero, docente di Antropologia all’università di Lisbona nonché direttore del master in Culture Visive Digitali, ha presentato all’istituto della Scienza e Tecnologia del governo portoghese.

Abbiamo chiesto allo stesso Favero di anticiparci, per sommi capi, alcuni punti di questa ricerca.

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“La sociologa giapponese Mitzuno Ito dice che viviamo tempi di copresenza visiva o visuale, e di fatto le immagini digitali ci raggiungono ovunque, si potrebbero definire una presenza ubiqua. Non hanno luogo, non esistono in uno spazio, esistono in un network soltanto. Né si limitano a riprodurre un oggetto, ma consistono in una simulazione visibile di tutta una serie di input: basti pensare ai raggi X, agli scanner negli aeroporti, alle fotografie satellitari, alle forme degli astri.

Entro su Internet, clicco su un’immagine _ che il più delle volte mi si presenta completa anche di sonoro _ e da quel momento posso variarne le dimensioni, trasporla su un testo, riprodurla, mandarla, condividerla, rimandarla e così avanti. Di quell’immagine divento perciò coautore oltre che consumatore. Quali ripercussioni avrà questa nuova condizione sul singolo essere umano e sulle collettività, è un’altra questione alla quale bisognerà prima o poi proporre risposte.

Qualunque sia il numero di passaggi, tuttavia, nel digitale la figura non muta; in passato, invece, con l’analogico, continuando a fare fotocopie di fotocopie l’immagine diventava inintellegibile. Detto in altre parole, oggi sparisce il concetto stesso di copia, e che di conseguenza va in crisi anche quello di originale. Scompare, tra l’altro, la possibilità di fare affiorare un dettaglio continuando a ingrandire una scena (come succedeva nella famosa sequenza del film Blow Up di Antonioni, dove si delineava gradualmente la sagoma di una pistola che stava ben nascosta dentro un cespuglio).

Mutamento radicale anche nei riscontri della veridicità: nell’analogico la verifica si faceva con la realtà fotografata, nel digitale sta in un algoritmo: prova che viene accettata anche a livello giudiziario. Di più: oggi non è difficile né manipolare un’immagine né accorgersi della manipolazione. Tre anni fa, alla tv ceca, un gruppo di artisti inserì la visione di un’esplosione atomica dentro la telecamera che abitualmente, nell’intervallo tra un programma e l’altro, mandava in onda una serie di paesaggi bucolici. A un certo punto gli spettatori videro sullo schermo, di colpo, un fungo nucleare, che sparì immediatamente. Fino a non molto tempo fa sarebbe stato il caos, si sarebbe scatenato il panico. Invece non si mosse nessuno; avevano realizzato subito che si trattava di un “effetto speciale”. Bisognerebbe probabilmente dedurne che l’uomo digitale ha minori difficoltà ad accorgersi di quando lo stanno turlupinando. Ma chi lo sa se poi è davvero così; dipende anche molto dal tipo di pubblico.

Si trasformano anche i concetti di pubblico e di privato. Nella sua camera, seduta sul letto, Anna Free, portoghese, una ventina di anni e voce splendida, si registrò, con il suo computer, mentre cantava accompagnandosi con una chitarra, e si mise su youtube per mostrarsi a un’amica. E’ diventata uno dei pionieri dei concerti su youtube: quasi 20 milioni di spettatori. A questo punto che differenza c’è fra riprese realizzate in uno spazio che del privato è simbolo, come una camera da letto, e altre riprese effettuate in spazi simbolo del pubblico, ad esempio le strade della Libia, dalla Siria, dall’Iran? Cos’è privato e cos’è pubblico?

Mutamenti importanti si profilano anche dal punto di vista psicologico, forse sarebbe meglio dire antropologico. Esistendo solamente in un network (e non in uno spazio fisico, come quelle analogiche), le immagini digitali sproneranno a evolverci in senso comunitario. Ma attenzione: potrei accorgermi di condividere più cose con alcune persone in Giappone che non con i miei vicini di casa. “Noi siamo quel che condividiamo”, riflette il sociologo statunitense Charles Leadbeater nel suo bel libro “We think”. In passato si pensava a un pubblico, piccolo o grande che fosse, al quale mostrare le proprie fotografie, però esse potevano vivere anche in un cassetto. Oggi, le foto che mettiamo su Facebook esistono solamente se condivise sullo schermo. Mi viene in mente la differenza fra l’Enciclopedia Britannica dove andavo e leggevo, e le pagine di Wikipedia dove vado e scrivo. Non soltanto: registrare un messaggio su Youtube è un’esperienza psicologicamente inedita, molto singolare, possiamo scoprire lati assolutamente nuovi di noi stessi. Un antropologo americano, Michael Weltsch, ha approfondito questi meccanismi di autopresentazione. Personalmente, uso sovente registrare interventi destinati a qualche convegno, e, mentre parlo, mi rendo conto di essere completamente solo di fronte al mio computer, contemporaneamente però so che potrei, almeno in teoria, avere davanti a me milioni di spettatori. E questa è un’interazione tutta speciale, estremamente individualizzata e massimamente comunitaria, profondamente diversa dai rapporti nella vita quotidiana.

 

 

Per maggiori info sull’argomento è possibile scrivere una mail a info@culturalismi.com   specificando nell’oggetto “All’attenzione di Ornella Rota”.

Per maggiori info su Paolo Favero:

https://www.culturalismi.com/culturalismi/dialogando-con-./paolo-favero-e-lantropologia-visiva.html

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