di Claudio Consoli
Il sole picchia impietosamente sulla vostra testa e a poco serve il riparo del vostro cappello, l’ombra della cui tesa sembra più cercare di nascondersi che offrire sollievo alla pelle del vostro viso, mentre i leggeri vestiti da voi indossati sono ormai incollati al vostro corpo come una seconda pelle; l’aria è incandescente ma non immota come il paesaggio che vi circonda, è mossa invece da un leggero alito di vento che non dona però alcun refrigerio, essendo caldo come il soffio dell’inferno, ma serve solamente a sospingere, nel suo pigro rotolare, l’immancabile groviglio di sterpaglie.
In fondo alla polverosa strada che state percorrendo, tremolante, sullo sfondo di un orizzonte abbagliante, si delinea la sagoma di un umile edificio: basso e irregolare nei suoi contorni, nel complesso non offre una vista invitante ma, come il più ammaliante dei miraggi, a fare da anticamera a quella che ora riconoscete come una locanda, c’è una piccola veranda in legno con una malandata tettoia che promette una palliativa sensazione di fresco, mentre proietta un’incerta ombra su due piccoli tavolini bianchi, la cui vernice sembra aver bisogno di una rinfrescata più di quanto ne abbiate voi; raccogliete le residue energie ed accelerate il passo verso la locanda mentre alcuni suoni cominciano a colpire la vostra attenzione.
C’è l’anta di un frigorifero per bibite in stile anni 50, arrugginito e mezzo inclinato sui suoi malfermi piedi, che sbatte pigramente sullo chassis vuoto, dando un colpo mortale alla vostra speranza di un balsamico contatto della vostra gola riarsa con una birra ghiacciata, magari con una fetta di lime ad annegare nello stretto collo, stranamente avete ancora la lucidità per notare come, in maniera inaspettata, quei colpi attutiti da una cadente guarnizione, fanno quasi da base ritmica al malinconico arpeggiare di una chitarra, di cui recepite il suono senza indovinarne l’origine.
Muovendo solo pochi altri passi oltrepassate un relitto di cisterna in legno che nascondeva alla vostra vista un uomo seduto sulla veranda, che ora vi mostra le spalle ma che siete sicuri stia imbracciando un vecchio strumento da mariachi.
Posato il piede sul primo gradino della veranda, l’uomo smette di suonare e si volta a guardarvi accogliendovi con un melodioso “Buenas tardes, señor!” mentre due occhi scuri che sembrano due incisioni in un viso fatto di cuoio vi osservano colmi di sincero spirito di ospitalità misto a sorpresa: la sorpresa di avere un cliente in quell’angolo di frontiera che non è più avamposto di una civiltà ancora da venire, ma semplicemente un posto lasciato indietro, nel tempo e nello spazio, mentre la civiltà sembra essere esplosa in mille direzioni diverse, ma tutte altre da lì.
Più tardi, dopo aver scoperto che il meglio che potevate bere era un artigianale distillato d’agave, dopo aver mandato giù il primo sorso ed esservi maledetti per aver accettato quella bevanda omicida, dopo averne comunque mandati giù più polverosi bicchieri di quanti ve ne credevate capaci, con i vostri sensi ormai piacevolmente annebbiati, ma con una mente lucida, che nel dilatato tempo alcolico ha trovato la giusta dimensione per dare cittadinanza a simili pensieri, vi trovate a pensare che in fondo quel fuoco liquido quasi vi piace, che quel posto non è né perso né desolato, è solo ciò che rimane della frontiera quando la si priva della dimensione dell’oltre, dal concetto del confine, dalla propagandistica promessa o la pia illusione: è terra, è vento, è sassi e cieli sconfinati, quindi terra di nessuno nella quale però c’è ancora spazio per chi non voglia depredarla o possederla ma perdersi in essa per ritrovare poi un io diverso, risultante della materia originale e dell’azione di una natura che può essere estrema ma anche artefice di destini; come l’adobe di cui è fatto il muro su cui vi poggiate: miracolo di ingegno e lavoro umano che impasta erba secca e fango in giusta proporzione e che il calore del sole renderà poi mattone, somma dei propri ingredienti ma risultato che ne vale infinitamente di più.
Semmai vi trovaste a passare per un posto così la musica dei Calexico è esattamente la colonna sonora ideale, così come la scena sopra descritta penso sia l’ovvia immagine evocata dalle canzoni da loro composte.
I Calexico nascono in Arizona quando Joey Burns e John Convertino, fino ad allora componenti di un gruppo rock di Los Angeles, gli Giant Sand, fondano il loro progetto a Tucson dandogli l’azzeccato nome di una cittadina della California chiamata appunto Calexico come crasi di California e Mexico i due stati sul cui confine è stata fondata, di fatto creando e facendosi alfieri di un sottogenere musicale chiamato alt-country, ma al di là delle etichette di genere musicale, sempre scomode da indossare, con l’intenzione chiara e manifesta già dal nome del gruppo di fondere la tradizione musicale statunitense con quella messicana.
L’episodio più felice della loro discografia che mi sento di consigliare caldamente è The Black Light disco del 1998, non più recentissimo quindi, ma considerato il target musicale del gruppo il fattore temporale non penso sia granché importante.
In questo lavoro il gruppo è riuscito a condire la sua amalgama musicale nel migliore dei modi ed a sfornare un album dove le tradizioni folk e country nordamericane, le sonorità malinconiche tipiche della musica di un’orchestra mariachi ma anche influenze caraibiche ed echi delle lontane Ande si fondono magicamente in un disco dal forte sapore quasi cinematografico, con un gusto compositivo quasi da colonna sonora testimoniato anche dal fatto che, su diciassette tracce, solo sei contengono un cantato che comunque è sempre leggero e caldo come la brezza che ci aspetteremmo accarezzarci il viso su quella veranda malandata; a rendere ancora più colorata e particolare la pietanza si aggiungono anche suggestioni del nostro Morricone, ovviamente in salsa western, nonché alcune sfumature dell’Europa balcanica.
In The Black Light i due fondatori e membri fissi sono accompagnati da una piccola orchestra composta tra l’altro da tre trombettisti, un guitarron, tipica chitarra messicana dalle dimensioni più generose, il leader del loro vecchio gruppo, i Giant Sand, Howe Gelb al piano e organo, un violinista, un chitarrista classico ed uno di pedal steel guitar strumento che merita una breve descrizione: le steel guitar o slide guitar sono chitarre suonate esclusivamente con lo slide, sorta di cilindro metallico nel quale si inserisce un dito che poi si farà scorrere sulle corde della chitarra, tenuta orizzontalmente come una tastiera, oppure con un bottleneck come nella tradizione hawaiana o degli stati uniti del sud; la table guitar è appunto una di queste chitarre ma montata su quattro supporti così da poter essere suonata in piedi, mentre la pedal steel è una table che in più ha la possibilità, tramite la pressioni di alcuni pedali, di cambiare accordatura mentre la si suona.
Le molte tracce non accusano mai un calo di qualità ed anche se ci sono dei picchi non mi sento di sottolineare un pezzo a scapito dell’altro, in ossequio a quella riuscitissima miscela che il disco rappresenta, un disco in cui troviamo momenti di fuga attraverso quegli scenari che così vividamente fanno parte del nostro immaginario visivo grazie al genere western, scorci di intimità con composizioni quasi da musica da camera con violoncello, vibrafono e chitarra, ma anche episodi più jazz, pacati e dai movimenti più liquidi e ampi, chitarre malinconiche, soprattutto le slide, che ci ricordano a tratti certe scelte sonore alla Neil Young, ma anche pezzi più ritmici con tempi caraibici che invitano quasi al ballo.
In conclusione i Calexico rappresentano un altro esempio di esperienza musicale controcorrente, soprattutto se il flusso è quello inarrestabile del tempo, che però il gruppo di frontiera cerca di ripercorrere all’indietro
ma senza fuggire dal presente, semplicemente cercando di recuperare le proprie origini e riappropriarsi di quelle radici musicali che, nel caso degli U.S.A., parlano sia di vecchio che di nuovo continente e perciò prolifico crogiolo di affascinanti commistioni.
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