di Claudio Consoli
I sottili e taglienti raggi di luce che quasi ferivano i vostri occhi abituati alla penombra, si ritirano silenziosi verso la loro fonte, veloci come le nuvole che sospinte da forti venti atmosferici, coprono il sole nell’alto di un cielo d’autunno mentre in basso, nel folto di un bosco nordico, i vostri sensi si acuiscono rispondendo ad un primordiale istinto di preservazione che si attiva non appena i colori delle fronde degli alberi virano da innumerevoli e brillanti toni di verde ad un monotono e freddo blu che si spegne sulle ancor più scure cortecce di alberi antichi. La sensazione di una bucolica passeggiata in una natura viva e incontaminata si trasforma in un giro nel tunnel delle paure ancestrali, mentre i rami bassi e gli arbusti su cui fino a poco prima ammiravate la bellezza delle foglie o la quieta presenza di piccoli insetti, si trasformano in lunghi artigli che vi graffiano gli arti, braccia che cercano di impedire i vostri movimenti, tutto ciò che vi aveva fatto provare un senso di libertà nella natura si è tramutato in una sorta di trappola scura e piena di suoni inquietanti che sublimano le vostre solide certezze di uomo moderno in una nuvola di odori adrenalinici che immancabilmente vengono percepiti da uno sfuggente predatore: il vostro timore volge in paura quando la percezione di una presenza determinata e fredda si concretizza nel ghiaccio di occhi che intelligenti e astuti vi fissano dalla penombra di un fitto sottobosco.
Pensate di incontrare un lupo in una situazione come quella suddetta anzi, pensate di incontrarne un branco e di temere di finire in balia della loro fame per poi scoprire che la loro intenzione è diversa, ma la realtà dei loro istinti, che pure include le vostre paure, vi rimane sfuggente e perciò stimola accesa curiosità e voglia di capire, partecipare quell’inafferrabile entità singola e plurale al contempo, che è rappresentata dal branco; i ruoli si invertono ancora, ora siete voi che cercate di inseguire il branco, pensando e magari in parte essendoci riusciti, di averne compreso alcune dinamiche per poi rimettere tutto in discussione quando il pack prende una svolta veloce e inaspettata, gettandosi magari in una parte del bosco per voi ancora inaccessibile: ed eccovi di nuovo soli, di nuovo bisognosi di lavorare, avendone la volontà, sui vostri sensi e sulla vostra sensibilità sperando che alla loro prossima sosta sarete in grado di capirne la nuova intenzione e poter pensare, almeno per un po’, di poter essere parte del gruppo, almeno fino alla prossima, veloce, selvaggia e inattesa fuga nella foresta.
Seguire, ascoltare ed amare la musica degli Ulver (lupi in norvegese) è appunto un esperienza di questo tipo: difficile, selvaggia, arcana, estremamente appagante in alcuni momenti ma sicuramente non per tutti.
Il percorso artistico di questo gruppo scandinavo si snoda fra i primi demo autoprodotti “Rehearsal” e “Vargnatt” del 1993 (notte del lupo, varg è un sinonimo di ulv da cui i termini warg e worg spesso usati nella fantasy da Tolkien in poi) al loro ultimo lavoro uscito da poche settimane “Wars of the roses”, in questi 18 anni, a parte l’ironia suggerita dalla coincidenza cronologica, il gruppo ha raggiunto proprio con l’ultimo album una maturità espressiva che sembra finalmente racchiudere, nell’arco di sole sette tracce, le diverse anime musicali manifestate durante una carriera che non può che essere definita imprevedibile ed originale ma per meglio spiegare questa affermazione è necessario ripercorrere, seppur velocemente, la loro discografia.
La musica dei cuccioli di lupo, forse proprio per questo, muove i suoi primi passi nel territorio del black metal, “consueto” e prevedibile per una band scandinava, sia nei loro debut demo che nel primo disco (prodotto dalla Head not found) “Bergtatt” (mesmerizzato) del 1995: ritmiche serrate con batteria rutilante, screaming e growling del cantante, e atmosfere cupe, tutto come da programma si direbbe, anche il fatto che Bergtatt sia una sorta di concept album che narra la storia di una fanciulla che si perde in una foresta di troll, ma già in questi primi lavori emergono sequenze prettamente folk e melodiche ed un cantato che non si limita solo agli stilemi black metal, suggerendo che nel branco ci sono geni latenti che aspettano solo di manifestarsi.
Già al loro secondo lavoro sotto contratto con la Head not found infatti, i nostri ci regalano un audace quanto inaspettato album: “Kveldssanger” del 1996 disco di puro folklore scandinavo che in comune con il black metal mantiene solo tematiche ed atmosfere; nei loro Canti del crepuscolo infatti sembra quasi di essere seduti presso un fuoco da campo ad ascoltare fieri e malinconici vichinghi cantare di epiche gesta e tristi racconti degni di un Edda con il cantato aggressivo e feroce tipico del death/black metal che evolve naturalmente in baritonali ed evocativi cori accompagnati da strumenti acustici e tradizionali.
Dopo questa svolta gli Ulver ottengono un ricco contratto con una etichetta più grande e anche forse a causa di ciò producono nel 1997 un album più canonico “Nattens Madrigal” un altro concept sulla licantropia (e che altro d’altronde?) che comunque rappresenterà il loro ultimo lavoro classificabile come black metal, genere che di lì in poi decisero di abbandonare definitivamente per sperimentare e navigare, da bravi vichinghi, attraverso mari inesplorati, approdando però , per quanto riguarda la produzione, in un porto sicuro: la Jester Records diretta da Krystoffer Rygg, cantante della band dagli esordi ad oggi, con la quale ristamperanno i loro primi lavori e produrranno “Themes from William Blake’s The Marriage of Heaven and Hell” disco coraggioso nel quale, ispirandosi all’opera di Blake cominciano ad affacciarsi influenze ambient ed elettroniche nella composizione del gruppo.
Come intuibile anche dal titolo, il processo di cambiamento si palesa e si compie nel successivo Ep “Metamorphosis” del 1999 ma ancor di più nell’imperdibile “Perdition city” del 2000, con il quale il branco entra nel nuovo millennio con un folgorante disco che muove dall’elettronica e le sfumature drum ‘n bass del lavoro precedente per compiere un ulteriore balzo in avanti fino a “sconfinare” in territori musicali vicini a gruppi quali Massive Attack e Portishead, siamo quindi quasi in ambito trip hop, ambient, ma a ricordarci l’origine notturna, crepuscolare, da cui i nostri provengono, sono ancora l’atmosfera e le sonorità del disco che suggerisce scenari urbani a volte borderline, schizoidi (vedi Catalept con la sua citazione del tema di Psyco), tramite anche l’uso di samples, loop o testi semplicemente parlati ma usando un tono quasi disturbante. Lanciarsi nell’ascolto di questo disco è come lasciare la natura e le foreste abitate da troll e arcane creature quasi per ritrovare i loro equivalenti urbani nella giungla d’asfalto con tutti i suoi tormentati ed esauriti abitanti anche se, come spesso accade con gli Ulver, le ombre sono spesso violate da squarci di luce che in questo disco prettamente elettronico, sono espresse tramite un meraviglioso sax che insieme a ritmiche e tempi di batteria di stampo a volte jazzistico, ci accompagnano attraverso questa città della perdizione illuminando la scena come le scie di lampioni che sfilano veloci ai nostri lati, mentre immaginiamo di percorrerla in un auto dai vetri oscurati, quasi ad isolarci dal contesto che comunque attraverso di essi vogliamo voyeuristicamente spiare. L’”inurbamento” dei lupi produce però un inevitabile periodo di smarrimento durante il quale forse la sperimentazione lascia il campo ad un po’ di caos con vari lavori minori nei quali il cantato quasi sparisce e lascia il posto a loop quasi ossessivi ed ipnotici che comunque a tratti riecheggiano e portano alle estreme conseguenze le migliori intuizioni presenti in Perdition City. A questo periodo tutto sommato trascurabile da chi non sia annoverabile nella schiera dei fan a tutti i costi appartengono gli Ep “Silence teaches you how to sing” e “Silencing the singing” del 2001, segue poi una compilation “1993-2003 First decade in the machines” e due soundtrack “Lyckantropen themes” (20003) e “Svidd Neger” (2004) sulle quali evitiamo però di dilungarci.Nel 2005 questa fase della carriera degli Ulver si concretizza però in “Blood Inside” un disco frullatore nel quale echi progressive dei più ostici King Krimson,, elettronica d’avanguardia, suoni industrial e tracce delle varie sperimentazioni portate avanti negli anni, trovano sorprendentemente una certa organicità e coerenza narrativa ed espressiva che ci regala un album sicuramente difficile ma assolutamente da ascoltare.
Nei successivi sei anni che ci separano da “Blood Inside” gli Ulver producono, non a caso a mio parere, due soli dischi…ma che dischi signori!
Se nell’oscuro paesaggio urbano di “Perdition City” fasci di luce estemporanei suggerivano scene di una vita contemporanea in “Shadows of the sun” del 2007, al contrario, la narrazione musicale indugia appunto nelle quasi ossimoriche zone d’ombra del sole: eccoci dunque a viaggiare di nuovo, accompagnati dall’ormai matura e profondissima voce di Rygg che ci carezza e ci guida, con il calore e l’autorità che troveremmo in una forte e grande mano paterna, attraverso un ambiente musicale che non può non suggerirci una natura antica, forze immanenti, che trascendono il nostro essere umani e dunque, fatalmente transitori e proprio per questo non possono che attirarci e spaventarci nello stesso tempo, dotate di un magnetismo di cui stentiamo a comprendere i meccanismi.
“Shadows of the sun” è un disco meraviglioso, nel quale l’elettronica non è più straniante o un mezzo di sperimentazione ma si è ormai fatta strumento espressivo del gruppo, che si produce in brani di una potenza immaginifica sbalorditiva, caldi come un sole d’autunno può ancora essere ma allo stesso tempo adombrati da una malinconia e da una misticità che evidentemente è sempre appartenuta agli Ulver ma trova qui una collocazione perfetta in un disco coerente nella sua linea espressiva; batteria e percussioni, interventi ritmici in generale quasi assenti ma che compaiono a tratti a sottolineare momenti di climax musicale, di nuovo uno splendido e pacato sax, che nell’incredibile cover di Solitude dei Black Sabbath raggiunge una bellezza emozionante, passaggi di piano e sintetizzatori onirici e impalpabili e ovunque questa sensazione di essere al cospetto di qualcosa appena al di là della soglia della percezione.
Uscito da poco invece è “Wars of the roses” che dopo il viaggio onirico ma pieno di malinconica pace del precedente album reintroduce sezioni ritmiche di stampo più rock e comunque una grana musicale meno eterea ma ancora perfettamente riuscita e coerente nella sua differenza sonora; tornano momenti più caotici e progressivi in senso lato, in un disco che rappresenta forse la sintesi di “Blood inside” e “Shadows of the sun” i tre dischi della definitiva maturità artistica degli Ulver nel quale trovano spazio, per chiudere il cerchio aperto ad inizio articolo, tutti gli ingredienti della ricetta artistica del gruppo: dissonanze e lucido caos come in February MMX, nel finale di Norwegian Gothic ed in England, nelle quali troviamo un cantato graffiante e quasi dis-armonico; romanticismo e tristezza (una su tutte: Providence con il duetto Rygg/Siri Stranger); melodie di chitarra vagamente lisergiche, in cui risuonano echi dei primi Pink Floyd come in Island; un gusto melodico che pur nella sua episodica semplicità a volte emerge come in September IV ed infine citazioni più o meno colte e ricercate, come nella conclusiva Stone Angel, in cui il tastierista O’Sullivan recita un testo di un poeta contemporaneo americano Keith Waldrop.
In conclusione gli Ulver costituiscono un gruppo la cui musica è sicuramente inconsueta, almeno per la media degli appassionati di musica italiani, ma proprio per questo estremamente interessante e assolutamente degna di attenzione e di ascolto: chissà che qualcuno di voi non risponda all’ululato degli Ulver e stanco di visioni e paesaggi soleggiati e mediterranei, non decida di seguirli nel folto di una primeva, selvaggia, maestosa e malinconica foresta.
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