di Ivan Errani
Il primo a tremare è stato Ahmadinejad, poi è toccato a Ben Ali, ora è la volta di Mubarak (qualche mugugno si percepisce addirittura dall’Arabia Saudita). Si direbbe, valutando certe coincidenze, che da quando i giovani arabi hanno scoperto la potenza dei social network, i grandi dittatori (ma guai a definirli tali, per convenienze europee e americane) abbiano cominciato a farsela addosso. Ma il discorso può essere esteso anche a regimi non islamici ancora saldi come la Cina, la Birmania e Cuba. Sembra che ci sia un nesso strettissimo tra la velocità comunicativa che la rete mette a disposizione di tutti coloro che hanno qualcosa di importante da srivere e la naturale propensione dei cittadini del mondo di essere governati da istituzioni perlomeno trasparenti, giuste, libertarie. Ecco, forse l’aspetto che maggiormente affiora dalle manifestazioni, dai movimenti di massa, e che determina un cambiamento radicale nei rapporti di forza tra governanti e governati, è che la loro organizzazione è concepita, discussa e indetta attraverso i cinguetii di Twitter o i commenti di Facebook. Questi strumenti, nati per mantenere in contatto persone legate da vincoli familiari, amicali o d’interessi, sono diventati la cassa di risonanza di un diffuso senso di frustrazione, di una prepotente voglia di cambiare una volta per tutte la società. E non si fa certo distinzione tra vecchie e nuove generazioni: il flusso di informazioni viaggia a velocità tale che nessuno rischia di rimanere all’oscuro delle decisioni del movimento. Gli slogan di milioni di iraniani contro l’attuale governo sono stati ideati e diffusi tramite i social network; gli assembramenti e le assemblee, le informazioni su quale piazze occupare e quali strade evitare sono state fatte conoscere al maggior numero di persone con il minimo sforzo. La potenza di tali mezzi è quella di veicolare un messaggio semplice a una platea infinita di soggetti: basta premere un tasto e tutto il modo saprà che il tale giorno, alla tale ora il regime ha fatto quello che ha fatto. I ragazzi tunisini hanno redatto un manuale del perfetto manifestante in formato pdf e lo hanno distribuito in rete, i giovani iraniani ci hanno raccontato in tempo reale cosa stava accadendo a Teheran, gli studenti egiziani hanno diffuso videomessaggi tramite Youtube per invitare la cittadinanza a scendere in piazza al fianco dei propri fratelli. Così pericolosa è la rete per i governi autoritari, che gli esperti egiziani fedeli al rais hanno “disconnesso” il paese per più di una settimana per evitare la circolazione delle informazioni. Qualcuno comincia a proporre una relazione suggestiva: più un popolo ha libero, costante e diffuso accesso alla rete, e quindi alle informazioni che libere l’attraversano, più sarà grande e decisa la sua voglia di democrazia. Senza spingerci a considerare il web lo strumento da brandire contro tutti i tiranni, si può però affermare che un popolo che ha molto da dire trova nei social network, e in Internet in senso più ampio, una virtuale agorà per costruire le basi del progresso futuro. Sempre che si usi lo strumento dalla parte del manico e per scopi pacifici. Qualcuno ha iniziato a organizzare le rivoluzioni attraverso Facebook, vedremo quante sfoceranno in mature democrazie.
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