di Ornella Rota
Per alcuni periodici ai quali collaboro, ho in questo periodo intervistato Paolo Favero, docente di antropologia all’università di Lisbona e direttore del master in Culture Visive Digitali. Mi fa molto piacere raccontare anche per voi questa persona, certamente tra le più intelligenti che io abbia incontrato negli ultimi (almeno) dieci anni.
ROMA. “Non trovi nessuno disposto ad ammettere di essere razzista nello spazio pubblico”, riflette Paolo Favero, “ma se cammini a Roma o a Milano con una telecamera o una macchina fotografica, puoi registrare tutta una serie di esperienze in senso opposto: per esempio la costante reazione di scostarsi incrociando un passante nero, l’eccezionalità delle coppie miste (anche di amici), la conformazione dei luoghi in rapporto agli abitanti, le cartacce e le cicche in terra, i comportamenti ai passaggi pedonali, le scritte sui muri, i cartelloni pubblicitari”.
Cittadino italiano e svedese, autore di numerose pubblicazioni in più lingue, membro dell’Associazione Europea di Antropologia Culturale, Favero è vissuto anche in India, per una decina di anni. Si è laureato a Stoccolma con un libro sull’identità culturale dei giovani della classe media a Nuova Delhi. Per un certo periodo ha insegnato Cultura Visiva all’Università di Londra.
Qualche immagine emblematica della società italiana di oggi?
“Donne e immigrati. Quegli sfondi che riproducono il cielo di Microsoft. Certe famose campagne di Oliviero Toscani”.
Le figure femminili?
“Sono esemplari della nostra mancanza di rispetto verso i tanti “diversi” che popolano la vita quotidiana: in primis le donne, appunto, subito seguite dagli stranieri. Impensabili in Paesi dove l’approccio alla diversità è tutt’altro (come nel nord Europa), manifesti simili funzionano invece benissimo da noi. Una riprova? La differenza fra la quantità di torsi femminili e maschili che compaiono mediamente in un giorno su un qualsiasi canale televisivo. D’altra parte, per raccogliere consenso, i pubblicitari _ al pari dei politici _ devono rifarsi al “comune sentire”, che da noi ama definire “froci” gli omosessuali, “zoccole” le donne e “grandi scopatori” gli uomini”.
Gli immigrati?
“Nonostante (o forse proprio a causa del?) l’antica tradizione di umanesimo, noi non diamo spazio agli stranieri. Però li invitiamo a esibirsi in festival e serate: paghiamo il biglietto, entriamo e ce ne andiamo quando vogliamo. Come dire che siamo sempre noi a decidere”.
Il cielo di Microsoft?
“Sceglierlo quale sfondo di manifesti di propaganda significò, negli anni ’90, selezionare il pubblico destinatario e mandare un messaggio subdolo, implacabile: bada che il futuro siamo soltanto noi. Una manipolazione lucida, spaventosa proprio per la sua banalità”.
I poster di Oliviero Toscani per Benetton meritano forse un discorso più complesso.
“Quelle immagini di neonati allattati da donne di etnia diversa evocano la celebre mostra “The Family of Man” voluta negli anni ’50 da Edward Steichen al Museum of Modern Art di New York. Selezionate tra quasi 2 milioni di scatti effettuati in 68 Paesi da 273 operatori, le 503 fotografie esposte documentavano sentimenti, reazioni ed esperienze comuni a tutti gli umani del mondo, come il pianto delle madri dopo il parto. Roland Barthes osservò allora che l’assunto della mostra era certamente nobile, ma che, ad esempio, l’abissale divario fra le aspettative di vita dei neonati africani ed europei rende profondamente diverso il pianto delle rispettive madri. Nello foto di Toscani non ci sono echi di realtà storiche né tantomeno delle loro ragioni. Il nostro multiculturalismo sembra nutrirsi essenzialmente di input estetici”
Si potrebbero fare considerazioni molto simili per gli spot televisivi e altre promozioni.
“Oggi, però, la crescente possibilità di produrre e riprodurre immagini sta cambiando tutto. Se con il tuo cellulare riprendi un evento che per ipotesi venisse poi stravolto o strumentalizzato, potrai scaricare quelle scene su un network o su un blog e una folla ne prenderà possesso, le commenterà, interpreterà, imporrà. Chiaro che la divulgazione di immagini può avere intenti e conseguenze assolutamente opposti: dal salvare la vita a oppositori incarcerati da un qualche dittatore all’incrementare la violenza diffondendo, ad esempio, atti di bullismo a scuola. Di fatto, tutti i progetti basati sulla rete possono o addirittura modificarti la vita o comunque produrre delle controverità o quantomeno proporre dei punti di vista “altri”. Come se la nostra epoca chiamasse al coinvolgimento”.
Il che fa paura e dunque rischia di aumentare il rischio di derive autoritarie.
“Secondo me non abbiamo ancora capito dove siamo; stiamo dentro un’epoca che è in corso di sviluppo”.
Box: L’antropologia visiva analizza la cultura attraverso le espressioni visive e per farlo utilizza generalmente immagini (foto, video, altro). Il campo di studi è immenso: dalle cerimonie ai miti, dall’abbigliamento ai sogni, all’organizzazione del territorio, architettura, cinema, fotografia, pubblicità, pittura, fino ai mezzi di comunicazione di massa, con la relativa capacità di manipolazione sociale. Crescente importanza riveste oggi l’esame delle potenzialità del digitale e dell’interattività, fenomeni che certamente sconvolgeranno la vita com’è oggi e dei quali stiamo appena cominciando a intravvedere alcune prime conseguenze.
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