di Ivan Errani
Quando Hubert Selby Jr. pubblica, nel 1964, Ultima fermata a Brooklyn scoppia un casino. Letteralmente. L’America non regge l’urto di una narrazione viscida e brillante al tempo stesso, di una lucida ma romantica analisi di un mondo di emarginati oltre ogni border . E Brooklyn è il palcoscenico sopra il quale gli attori (ubriaconi, omosessuali, transessuali, disturbati, criminali, vandali) recitano con le loro movenze tra la supplica e la tracotanza dell’abbandono. Il bar del Greco è l’avamposto di un’umanità che non vede l’ora di fare a botte, spaccare qualche bottiglia in testa a pidocchiosi marinai. I ragazzi smaniano, bisogna che il jukebox suoni qualcosa di decente o cominciano ad innervosirsi. Qualche giro di jazz e la birra torna a scorrere gelando la trachea. Tutti affogano in benzedrina e marijuana per dimenticare o fuggire, ingurgitano buglie per fottere il tempo. E non importa se tua moglie è a casa e sbraita contro quel piagnilacrime di tuo figlio duenne o se quella finocchiona di Georgette, oggi, vuole proprio te: quello che conta è non pensare al fango delle strade e a una vita che non regalerà mai attimi di salvezza. Di pace. Selby incarna un modo di narrare che ha fatto scuola nel mainstream statunitense (Philip Roth, quello del Pulitzer per Pastorale americana, per intenderci) e per un po’ di decenni anche nella vecchia Europa. Disse del suo lavoro: “L’unico influsso che ho subito, per quanto posso vedere io, è quello di Beethoven. Perdio, cosa non sapeva fare quell’uomo con due, tre, quattro note! Le metteva in fila. Le ripeteva. Una, due, tre volte. Poi le alternava, le ricombinava, in tutti i modi. E alla fine saltava fuori la Quinta Sinfonia.E’ questo tipo di scrittore che io voglio essere”.
Selby quella Brooklyn la conosce molto bene (vi nasce nel ’28) e la descrive in tutta la sua potenza evocativa, in tutte le sue profonde rughe sociali, negli interstizi delle quali si nascondono vite consumate da un passato opaco. Il linguaggio, poi, assume un valore fondamentale nell’economia di tutto il libro: la frenesia delle espressioni non permette pause (ecchecazzo, stazzitto), l’emorragia di punteggiatura raffigura gli inciampi di flussi di coscienza alterati dalle droghe, la scioltezza della costruzione significa libertà dalle convenzioni, fossero pure sintattiche. L’amore, poi, è tanto assente nella sua accezione sentimentale, quanto prepotente nello sfociare in passione animalesca per il possesso, in pura esaltazione da onnipotenza.
Non c’è spazio per lo smarrimento: dal Greco si va a bere, si cercano bionde disposte a tutto, travestiti con le gambe più lisce di una scolaretta, alcol da ingurgitare e tanta musica da stordirsene. Non importa se sei un sindacalista importante, se spendi tutto quello che ti rimborsano: avrai sempre nelle orecchie la voce di tua moglie che si lamenta dei vicini italiani, delle scale sempre piene di vomito e preservativi, di un’esistenza che non sei in grado di migliorare. Non importa se domani mattina avrai una faccia da straccio da buttare quando ti troverai di fronte il capo fabbrica o la segretaria del direttore: stasera bevi, fotti e ingoi. Domani sarà sempre peggio.
Hubert Selby Jr.
Ultima fermata a Brooklyn
Feltrinelli, 2000
248 pagine
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