di Francesco Bordi
Quando sentiamo o leggiamo l’espressione: “L’ora di greco” il pensiero vola immediatamente
verso un’immagine legata all’ambito scolastico o magari, in maniera più estesa, possiamo
visualizzare un contesto di tipo accademico. Bene, nel romanzo di Han Kang nulla di tutto
questo è possibile perché c’è chi non sente (bene), c’è chi non vede (bene) e dunque non legge
(bene) e soprattutto c’è chi non parla e quindi non comunica. Così accade che in una Seoul con
tanto caldo, tanta ansia, tanto sudore e poca anima l’ora di greco, in un’accademia privata,
diventi un’opportunità…
Sentire ovattato. Percepire nell’ombra. Sentirsi oppressi. Cercare la fine delle angosce. Tentare
di parlarsi con gli occhi più che con le parole… Il titolo della premio Nobel coreana è un libro
fatto di percezioni, vissute e mancate.
La protagonista è vittima di un, nuovo, periodo di mutismo. Non è solo l’emissione dei suoni di
senso compiuto a venire meno, perché anche l’udito si dimostra danneggiato: «un silenzio
simile a uno strato spesso e compatto di aria aveva ostruito lo spazio tra la chiocciola
dell’orecchio e il cervello». Già le era accaduto in precedenza, quando era molto giovane, ma
durante quella sua adolescenza l’impatto visivo con il sostantivo francese “bibliothèque”,
scritto alla lavagna, le aveva improvvisante restituito la parola o meglio, le aveva riconsegnato
la capacità di pronunciarla. Oggi, non più ragazzina, con un lutto materno alle spalle ed un
mancato affidamento del figlio dopo la separazione, la protagonista rivolge le sue speranze al
greco antico ponendo la propria fiducia nella medesima dinamica, ma con una lingua
differente.
Il suo professore è coreano come lei, ma ha vissuto a lungo in Germania prima di far ritorno in
Asia. Non si tratta però di un docente tipico. Benché la professione richieda un continuo e
notevole sforzo da parte degli occhi, la sua vista di fatto sta inevitabilmente abbandonando gli
altri sensi, giorno dopo giorno a causa di una malattia degenerativa di cui nessuno è a
conoscenza fra colleghi e studenti: «La gente pensa che, quando si perde la vista, la prima cosa
che succede è che si diventi maggiormente sensibili ai suoni, ma non è vero: prima di qualsiasi
altra cosa, si inizia a percepire di più lo scorrere del tempo». Il suo svantaggio, qualora
divenisse pubblico, decreterebbe la parola fine sul lavoro, ma quando un incidente occorso
sulle scale dell’accademia ne rivela il segreto, l’unica testimone che potrebbe mettere a rischio
l’impiego del professore è proprio la sola persona che la parola fine non può assolutamente
pronunciala.
La narrazione dell’ora di greco diventa così il momento d’incontro di due entità dalle vite
profondamente sofferenti che, nonostante tutto, provano a non arrendersi alla fine che la loro
psiche ed i loro corpo sembra aver riservato. Lei è tornata sui banchi per provare a riscoprire
l’uso della parola malgrado il suo disagio nei confronti della società che la circonda e le sue
scarse risorse economiche mentre lui non ha smesso la sua attività d’insegnante a costo di
imparare le lezioni a memoria, preparandosi a casa con la lente d’ingrandimento e ricercando
anche la giusta intensità di luce che varia parallelamente all’andamento della sua malattia.
Il mancato utilizzo dei nomi propri dei due protagonisti può essere letto anche come un invito,
da parte dell’autrice, a considerare entrambi dei veri e propri esemplari di quell’umanità che
cerca di reagire ai dolori esistenziali anche se sembra sempre sul punto di cadere. Seguendo
quell’ipotetico stimolo, chiunque di noi lettori potrebbe essere al posto del professore o della
studentessa.
Se il teatro principale del romanzo è Seoul, non significa che in un’altra città più grande o più
piccola, magari in un continente differente, le dinamiche sarebbero differenti.
Un animo sensibile come quello della protagonista, in quelle condizioni, patirebbe forse nella
medesima maniera, soffrendo in mezzo alla gente che la spintona nelle strade, ripensando a
quegli incubi frequenti in cui si sente sommersa da una neve pressante, o si scopre spettatrice
di gente incurante di lei come se stesse guardando un acquario o ancora in cui vede se stessa
mentre cammina, solitaria, curva su di sé. Anche il protagonista, ugualmente, può farsi
portavoce di tutti coloro che si sentono prigionieri di uno spazio a metà fra due culture, come
ad esempio quella coreana e quella tedesca, dove se dovesse sopraggiungere una problematica
drammatica, quale la cecità, sarebbe difficile trovare un punto d’appoggio o, più esattamente,
una persona su cui poter contare.
La dinamica fra queste due realtà umane è intensa sebbene non si svelino reciprocamente quasi
mai nel corso della narrazione.
Han Kang si è preoccupata molto della caratterizzazione dei suoi protagonisti che, così
delineati, risultano vicendevolmente ed amabilmente ingombranti l’uno verso l’altra.
Le poche sequenze in cui è ravvisabile un approccio moderatamente intimo ricordano molto
alcune pellicole asiatiche che dell’esplorazione dei timidi, poetici e, a tratti goffi, contatti tra un
uomo ed una donna hanno fatto una grandezza stilistica. Pensiamo allo stile cinematografico di
Wong Kar-Wai, il suo “In the mood for love” ad esempio, oppure a “Dolls” di Takeshi Kitano.
Come per i protagonisti del grande schermo, anche il professore ipovedente e la studentessa
sordomuta hanno un mondo interiore che vivono con sofferenza ma si muovono in un ambiente
esterno che affrontano con difficoltà, cercando di gestire il proprio disagio. Il confine fra queste
due dimensioni non è indolore, tutt’altro: è tagliente ed affilato come una spada.
In tal senso non è assolutamente casuale la citazione con cui si apre il nostro testo, pubblicato in Italia da Adelphi Edizioni: “«C’erauna spada tra noi»: prima di morire, Borges aveva espresso il desiderio che sulla sua lapidevenissero incise queste parole”.
Nei continui racconti di confine all’interno del testo risiede la forza della scrittura di Han
Kang: i contatti fra i due protagonisti, i confronti fra le loro rispettive famiglie, le interazioni
mancate con la società, così come il loro rapporto conflittuale con le strade che percorrono,
intese sia come sentieri di vita che vie cittadine.
Sono tutti cammini lungo una linea di confine che non è dritta e definita, ma è ricca di rientranze e spigolature.
La quotidianità del professore e della studentessa è un continuo barcamenarsi fra due dimensioni che nel loro imprevedibile sviluppo a volte arrivano a fare proprie delle sfumature decisamente cupe o addirittura pulp.
Il confronto tra i sogni e la vita reale è probabilmente la demarcazione più complessa all’interno
di questa impalcatura narrativa.
La dimensione onirica (a tratti dolceamara), ritorna di frequente nella vicenda che ci viene
raccontata: «Gli occhi infine aperti, osservo semplicemente il soffitto sfocato e gli oggetti dai
contorni disfatti. Constato semplicemente con calma che non c’è altro mondo al di fuori del
sogno dove poter fuggire di nuovo».
L’atteggiamento del lettore nei confronti dei protagonisti e, più in generale, nei confronti di
tutta la scrittura dell’autrice di Gwangju, è quasi inevitabilmente empatico. La risultante delle
dinamiche tra chi vede poco e chi sente ancor meno è di una tenerezza misurata ma incisiva.
Poco vi importerà, cari lettori, se il professore e la studentessa avranno un futuro insieme e
vedrete che non conterà il fatto che lei recuperi più o meno la parola e l’udito o se lui perderà
presto il lavoro.
Il fulcro del messaggio letterario sta nel comprendere quanto spesso sia difficile, a qualunque
età, sentire che cosa c’è dietro un mutismo improvviso, oppure sotto un atteggiamento
apparentemente riservato e scostante, o ancora cosa celano i continui rifiuti a non voler uscire,
a non voler affrontare una vita sociale.
«Non è così semplice». Lo faceva presente la protagonista al suo psicologo, anzi… lo scriveva.
Non è così semplice affrontare i traumi infantili così come le separazioni da adulti, non è così
semplice farsi aiutare quando si sta male, non è così semplice ricercare le cause dei propri
malesseri e infine non è così semplice vivere spaccati in due cercando di non arrendersi. Ecco
perché paradossalmente per un professore ipovedente, così come per una studentessa muta e
sorda può apparire più semplice accettare un’ora di lezione piuttosto che affrontare le
dinamiche sociali.
Questa sensibilissima Penna presenta dunque, anche a noi, una grande opportunità nella sua ora
di greco: l’occasione di comprendere, davvero, un’apparente ovvietà. Una lingua morta non è
sicuramente facile, è vero, ma anche la comunicazione quotidiana «non è così semplice» per
chi invece, di vivo, vorrebbe avere non solo lo stato evidente, ma anche lo sguardo, la
spigliatezza ed il sorriso a prescindere dai propri demoni. Lettere, ideogrammi, grammatiche,
parole sono motivo di gioia per entrambi i protagonisti, li fanno sentire vivi e ne sono
fortemente attratti, ma sono anche la loro dannazione.
“Chalepà tà kalá”: “le cose belle sono belle”, “le cose belle sono difficili”, “le cose belle sono
nobili”. “Nessuna delle tre traduzioni è scorretta. Nell’antica Grecia bellezza, difficoltà e
nobilità non erano ancora concetti separati”.
Grazie per la lezione, Professoressa.
“Lora di greco” di Han Kang, Milano, Adelphi Edizioni, 2023
Fotografa di Francesco Bordi © tutti i diritti riservati
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