di Fabio Migneco
Dopo Red Hook Summer, che ha segnato il ritorno a Brooklyn e a quel cinema indipendente nel quale ha mosso i primi passi e al quale tornerà con The sweet blood of Jesus, il progetto finanziato anche grazie a Kickstarter e che ha già suscitato polemiche, Shelton Jackson Lee, detto Spike, torna dietro alla macchina da presa con un remake che lui preferisce chiamare reinterpretazione, tirando in ballo paragoni musicali a lui cari da sempre. Dopo anni di rumors e rinvii infatti Hollywood ne ha fatta un’altra delle sue, il remake del film cult di Park Chan-Wook, Old Boy (che qui diventa tutto attaccato), tratto da un manga pubblicato anche qui in Italia in seguito al successo del film originale e ora ristampato. Un progetto sulla carta rischiosissimo, con molti fan che già storcevano la bocca in vista di una versione occidentale addomesticata e molto meno profonda e tragica di quella coreana, piena di eccessi visivi e tematici, con un protagonista che non arretrava davanti a nulla e un finale che era veramente un cazzotto nello stomaco. Considerando poi i nomi che negli anni erano stati tirati in ballo, da Nicolas Cage a Will Smith – con tutto il rispetto per entrambi, comunque lontanissimi da un materiale del genere – si temeva il peggio.
A sorpresa invece il buon Spike, pur non etichettando la pellicola col suo solito “a Spike Lee joint”, riesce a dribblare tutte le insidie del caso e a confezionare un rifacimento che è sia rispettoso del materiale di partenza che in possesso di una sua propria identità, forza e ragion d’essere (per quanta ne possa avere il remake di un film di appena dieci anni fa, ma questo è un altro discorso). Chi ha visto il film di Park sa cosa aspettarsi, questa versione lo segue quasi alla lettera, con minime varianti (un prologo più lungo e dettagliato, la prigionia che dura 20 anni anziché 15, un epilogo diverso ma altrettanto pesante, che segue il colpo di scena finale al quale si arriva anche qui con alcuni cambiamenti di percorso – il passato dell’aguzzino – ma che ha la stessa carica scioccante e di fatto rimane lo stesso, anzi, qui lo spettatore viene anche preso in giro due volte come il protagonista circa l’identità della figlia perduta), ma gli innesti operati da Lee e dal suo team funzionano, dalla presenza di un caratterista di razza come Michael Imperioli che torna dopo anni a lavorare con il regista, a Samuel L. Jackson nell’ennesima caratterizzazione fuori di testa, anche oggetto di una tortura piuttosto brutale. Mentre Park flirtava a tratti col grottesco e non mancava nonostante tutto di alcune dosi di ironia per poi ammazzarti letteralmente nel finale, Lee mantiene un tono più serio, persino cupo, per tutto il film, disseminandolo comunque di tutti gli snodi e gli oggetti che il pubblico si aspettava di trovare (la lotta col martello, forse fin troppo coreografata, persino il polpo che compare ma non viene mangiato crudo come nell’originale) e contaminando intelligentemente la pellicola del 2003 con alcuni elementi del manga che erano stati allora esclusi. Un tentativo che si apprezza soprattutto grazie alla prova del protagonista, un Josh Brolin convincente anche nella trasformazione fisica, che ricorda a tratti i grandi duri di certo cinema del passato, da Lee Marvin in poi, presente quasi in ogni scena e capace di rendere tutte le sfumature di una tragedia come quella messa in scena, e del suo antagonista, uno Sharlto Copley ambiguo e perfido, viscido e ripugnante che nonostante il suo perenne recitare sopra le righe, non aiutato da costumi e trucco che rinforzano il tutto, funziona e si fa odiare come da copione. Si può da spettatori tirare un sospiro di sollievo questo è certo, ma resta comunque il sentore di un qualcosa che se c’era o meno non sarebbe cambiato nulla in fondo (fermo restando che se proprio si deve fare un remake è preferibile farlo in una maniera simile, certo) e soprattutto che da Spike Lee ci si aspetta ben altro che non una solida professionalità, ricordando(gli) che da quando è scoccato il nuovo millennio a parte un paio di occasioni (La 25° ora, Inside Man) non ha lasciato grossi segni e il suo cinema di finzione (altro paio di maniche con i documentari) non scuote più come un tempo, né le coscienze né la settima arte. Sulla carta il prossimo progetto potrebbe segnare un ritorno alla forma, cosa che auguriamo a lui e a tutti gli spettatori del suo comunque mai banale cinema.
Leave a Reply
Your email address will not be published. Required fields are marked (required)