di Fabio Migneco
Tratto dall’omonimo libro di Max Brooks, figlio del mitico Mel, voluto a tutti i costi – chissà perché poi – da Brad Pitt, il film si annunciava un disastro clamoroso. In primis perché del libro avrebbe avuto molto poco, quasi niente, poi perché è l’ennesima variazione su un tema usato e abusato in tutti i modi possibili e immaginabili ma che solo con Romero ha davvero ragion d’essere.
Eppure, contro ogni pronostico, l’insieme funziona e convince molto di più di quanto sembrava sulla carta. Non siamo di fronte a niente di innovativo (né per le parti in stile disaster movie né per quelle più puramente zombiane), tutto il sottotesto con la famiglia da lasciare per salvare l’umanità o morire provandoci è quanto di più prevedibile potevano propinarci. Il valore del film è altrove, nel giro di Pitt intorno al mondo, per cercare di trovare delle tracce che portino a una cura all’epidemia, nell’analisi metodica e funzionale che il suo personaggio intraprende e porta avanti fino alla fine, nella costruzione di scene di massa di grande impatto così come quelle legate agli attacchi di orde, di sciami di non morti. Un occhio è volto al sociale, con implicazioni e critiche politiche niente affatto scontate in un film di questo tipo. Interessante lo stile adottato dal regista Forster (dalla carriera singolarmente discontinua, suoi Monster’s Ball, Neverland, Stay – Nel labirinto della mente, Vero come la finzione, Il cacciatore di aquiloni, Quantum of Solace, Machine Gun Preacher, tutti film tra loro diversissimi per temi e riuscita), capace di variare registro a seconda del posto in cui la storia si dipana, con il montaggio che gli va di pari passo, da un inizio frenetico dove se sbatti un attimo le palpebre perdi gran parte di quello che viene messo in scena, a tutta la parte nel laboratorio verso il finale dove siamo quasi dalle parti di una regia classica, con una recitazione fatta di silenzi e sguardi e fisicità. Convince anche il viaggio all’interno dei topoi stessi del sottogenere, con alcuni rimandi e citazioni ben piazzati e mai invasivi. Il cast fa il resto, peccato per alcuni nomi di contorno un po’ sprecati nonostante la loro assoluta grandezza, David Morse su tutti, ma anche Moritz Bleibtreu e Matthew Fox, appena visibile in un paio di punti. Fa piacere che tra i comprimari, oltre a James Badge Dale, la riuscita migliore l’abbia il nostro Pierfrancesco Favino, non solo per la soddisfazione di avere tutte le sue scene con Pitt, ma anche perché prende parte a uno dei momenti più convincenti del film, che forse si perde un po’ nel finale vero e proprio, ma si sa che nei racconti di epidemie di zombi non c’è quasi mai un finale netto e assoluto. Qui tutto è affidato a un messaggio di speranza. Per quanto riguarda la sceneggiatura invece possiamo già ricordare World War Z come l’unica storia finora in cui Damon Lindelof abbia messo mano senza rovinarla del tutto e non è poco, visti i precedenti illustri.
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