di Marco Maresca
S. Maria della Pietà è il luogo della memoria dei matti. Tra i padiglioni che un tempo ospitavano uomini e donne colpiti dalle misteriose anomalie della mente, tra i viali alberati e le sparute automobili in sosta, si aggirano oggi torme di passeggianti, madri e nonni con minutaglia al seguito e, soprattutto, podisti. In pochi ricordano quello che succedeva nel comprensorio. Il passato, ormai, è completamente ricoperto dal rumore della vicina via Trionfale, dagli schiamazzi dei bambini e dai latrati dei cani. Le vecchie costruzioni sono in parte riconvertite e in parte lasciate al loro declino naturale, ruderi che non saranno mai uffici comunali o sedi di associazioni. Difficile immaginare i tempi della pecora nera di Ascanio Celestini.
Periferia ovest di Roma, parco pubblico dell’ex-manicomio, ore venti. L’aria ferma di luglio odora di fieno e di tiglio. Qualche ghigno lontano si perde nel rosso del tramonto che si posa sulla campagna romana. Angelo e Sara stanno correndo da venti minuti. Adorano correre in compagnia, perché la fatica passa in secondo piano, viene dopo l’altro. Adorano parlare di tutto, mentre corrono. Ma adorano anche il silenzio del parco. Soprattutto quando, calato definitivamente il sole, restano quasi soli a vagabondare per i vialetti irregolari del comprensorio. Ogni tanto hanno il bisogno di ricordarselo, distratti come sono dalle parole. E allora ammutoliscono, e corrono sui talloni, per eliminare gli ultimi decibel residui. E continuano la corsa, un po’ sorridendo, un po’ pensando.
Allo scoccare dei quaranta minuti, decidono di fermarsi. Raggiungono l’altalena di uno degli spazi attrezzati e si siedono, guardando ognuno dalla parte dell’altro. Tutto consueto. Finché l’inconsueto – l’improbabile – incombe sull’aria ferma tracciando un segno sinistro. Un grido agghiacciante squarcia il silenzio e allontana i loro occhi intrecciati.
Angelo si alza, e cerca con lo sguardo nella direzione dell’urlo. Sara resta seduta, guardando in direzione di Angelo. Angelo ha capito da dove viene l’urlo e s’incammina a passo veloce. Sara lo segue, un po’ intimorita.
Un uomo sulla settantina, capelli rasati e abiti sdruciti, se ne sta bocconi sull’aiuola di erba rinsecchita che costeggia uno dei padiglioni abbandonati. Sulla fronte porta i segni evidenti di una caduta. Una scia di sangue scende lungo la fronte. L’uomo, occhi sbarrati e bocca spalancata, sta ora emettendo un urlo soffocato. Le sue mani si muovono in tutte le direzioni.
Angelo si avvicina e gli chiede come sta, se va tutto bene. L’uomo continua a sbraitare e a emettere suoni indistinti. Che diventano via via più distinti, fino a tramutarsi in una richiesta di aiuto.
– E’ in alto quella benedetta finestra! Tutta colpa delle chiavi! Io ci ho provato ad entrare dalla finestra, lo giuro! Mariù mi sta aspettando per la cena… Benedette chiavi! Sarà già in pensiero… Mariù si arrabbia se faccio tardi! Devo andare! Dove ho messo le chiavi di casa? Aiutatemi, vi scongiuro!
Angelo e Sara si guardano, un po’ preoccupati e un po’ divertiti. Poi aiutano l’uomo a rialzarsi e tenendolo per le braccia lo accompagnano verso l’uscita del parco. Lui, però, oppone inspiegabilmente resistenza. Mentre lo tengono per le braccia, l’uomo continua a parlare, a dire delle chiavi che ha perso e di Mariù che si arrabbia se lui non arriva in tempo per la cena. La sua voce, man mano che parla, si fa più roca, fino a trasformarsi in un lamento, poi in un pianto. Sì, ora l’uomo piange, perché lo aspettano per cena, lo aspettano a casa, è Mariù che lo aspetta e se non lo vede arrivare si arrabbia, lo sgrida, lo mette in punizione. Piange perché la sua casa è lì, e lui è caduto dalla finestra della sua casa mentre tentava di entrare, perché aveva perso quelle benedette chiavi, e loro non possono portarlo da un’altra parte, perché Mariù si arrabbia se arriva in ritardo. Angelo e Sara, ora faticano a portare l’uomo, devono quasi trascinarlo.
Al cancello d’uscita trovano una pattuglia della polizia municipale. Rincuorati per l’inatteso incontro, spiegano i fatti agli agenti. L’uomo, in evidente stato confusionale, deve essere caduto mentre tentava di raggiungere una finestra di un padiglione dismesso, o forse di salire sul grande albero di fico che gli è cresciuto a fianco. Angelo sorride, facendo intendere con chi stanno avendo a che fare. Gli agenti sorridono a loro volta, ringraziano e trasportano l’uomo verso il vicino ospedale S. Filippo Neri. Lì sapranno prendersi cura di lui.
Continuando a sorridere, Angelo e Sara si avviano verso le rispettive automobili. Con poco sudore nei vestiti e molto da raccontare, se ne vanno contenti per l’inaspettato diversivo. Un bacio, e alla prossima corsa.
Intanto, il buio della sera ha scansato l’ultimo chiarore di Roma. Il parco resta vuoto, immerso nel suo silenzio che adesso, finalmente, può dirsi perfetto. Tra i fabbricati sparsi a manciate lungo i viali, la luce gialla dei lampioni avvolge tutto in un’atmosfera antica, riportando quel luogo al tempo del suo antico splendore. Quando i matti un po’ meno matti degli altri dovevano affrettarsi per la cena, perché altrimenti l’infermiera si sarebbe arrabbiata. Quell’infermiera, soprattutto, quella Mariù che con Gino non sapeva più che fare. Gino, del padiglione 31, che era un ritardatario cronico.
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