di Fabio Migneco
Sorrentino è bravo, non c’è dubbio. Sia a livello tecnico, nella scelta e composizione delle inquadrature, nella messa in scena, nella direzione degli attori, sia come scrittore (cosa dimostrata anche in narrativa tout court col suo romanzo). Ha intuizioni felicissime e geniali, spunti freschi e sa come lavorare per immagini, alcune assolutamente di impatto.
C’è un problema: sa di essere bravo, anche troppo forse, e se ne compiace in maniera a volte insistita. Del tipo: guarda che arzigogolato movimento di macchina che ti piazzo qui per farti vedere quanto sono bravo. Oppure: senti che passaggio infilo qua, roba da altissima letteratura. O ancora: ma io c’ho in mente questa scena, che non c’entrerebbe niente eh, come per esempio un terrazzo davanti al colosseo pieno di fenicotteri che poi si librano in volo, però la metto perché so farla bene e a vederla dà soddisfazione. Il tutto senza una grande spocchia eh, o almeno così sembra, quanto più con quella indolenza ironica che sfoggiava nella sua deliziosa apparizione in Boris. Resta il fatto che forse sta prendendo una piega pericolosa e, visti i risultati internazionali e gli apprezzamenti della critica, nessuno lo arginerà più. La Grande Bellezza è un bell’affresco denso e fin troppo ricco di cose, persone, sottotrame, facce eccetera. Ma c’era davvero bisogno che durasse due ore e quaranta? Non credo. Due ore sarebbero state più che sufficienti e il film ne avrebbe giovato. Tutta la parte finale con la santa, ma a che serve? Cosa aggiunge a quanto già detto? Certi tocchi sui quali senza dubbio certa critica sta lì a meravigliarsi interrogandosi sul loro recondito senso intrinseco, in realtà quasi sicuramente di senso ne hanno ben poco e anzi lasciano l’impressione che Sorrentino, tra le altre cose, si diverta a prenderci un po’ in giro in tal senso…
Detto questo il film ha una fotografia magnifica, un personaggio centrale ancora una volta azzeccatissimo (anche se iniziano a somigliarsi troppo), ottimamente reso da un Servillo talmente a suo agio che lo calza come un guanto, una serie di trovate indovinate nella rappresentazione di una Roma bene degenere che cerca come può di colmare, invano, quell’horror vacui che lei stessa ha contribuito non poco a creare. Soprattutto sfoggia un cast artistico calibrato al millimetro, con innesti interessantissimi, come quello di una coraggiosa Serena Grandi in un ruolo praticamente autobiografico, che si mostra sfatta e decadente come poche farebbero, o l’irresistibile Buccirosso, attore poco sfruttato fuori dalle solite farse teatrali e cinematografiche ma di grande bravura, la stessa Ferilli fa un ruolo dolente con la giusta malinconia nello sguardo e nell’anima. Verdone ha un piccolo ma incisivo ruolo il cui unico limite è il bagaglio che l’autore e attore romano si porta appresso, una carriera trentennale che lo ha reso iconico ma contemporaneamente gli ha precluso altre strade, qui ad esempio è bravo, ma al tempo stesso non smetti di pensarlo nelle sue altre vesti più classiche.
Un film fin troppo ricco, lo ripetiamo, e non è propriamente un bene. Certo, meglio essere imperfetti per troppa abbondanza di cose, più o meno valide, che esserlo per miseria di forma e contenuti. Però non si può caricare così tanto, come a dire almeno qualcosa di buono da trovare c’è e c’è per tutti. Sorrentino dovrebbe asciugare tutta questa sua magniloquenza, avere il coraggio di tagliare qualcosa in più e andare dritto al punto invece di perdersi in voli pindarici, alcuni molto belli altri stucchevoli, altri proprio immotivati. In quel modo tirerà fuori quel vero capolavoro che, ci scommettiamo, ha da qualche parte dentro di sé.
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