di Fabio Migneco
Avete presente tutte quelle iperboli e quella sfilza di “mitico”, “leggendario” e chi più ne ha più ne metta che si usano così tanto al giorno d’oggi (e che anche io utilizzo a volte, sull’onda dell’entusiasmo)?
Be’, quanti personaggi se le meritano davvero? Non molti a dirla tutta.
Una cosa è certa, se c’è qualcuno che li merita tutti e, anzi, si meriterebbe che se ne inventassero di nuovi appositamente per lui, quello è Bruce Springsteen.
Il Boss è approdato il 7 giugno a Milano per la prima delle tre tappe italiane del Wrecking Ball World Tour 2012 (le altre sono state quella del 10 a Firenze e dell’11 a Trieste) e si sapeva che sarebbe stata una serata storica. Perché con Milano, con S. Siro, Springsteen ha un rapporto particolare, nato nel lontano 1985, primo concerto italiano, e consolidato nel 2003, con quello che definisce uno dei suoi cinque migliori concerti di sempre, quando si stupì una volta di più del pubblico italiano (“il numero uno” ha ribadito) elettrizzato ed elettrizzante, festoso e partecipe nonostante un diluvio biblico.
E così è stato anche questa volta, con 60.000 spettatori trascinati da Springsteen nel cuore e nelle viscere della vera Musica con la maiuscola.
Sorprende e diverte, del Boss, la carica di energia e simpatia che lascia trasparire da ogni poro e che farebbe invidia persino a un adolescente! Conoscete qualcun altro che a 62 anni (63 a settembre per la precisione) sia capace di infiammare le folle come lui? Di tirare avanti senza soste per tre ore e quaranta di concerto che è spettacolo duro e puro senza nessun inutile orpello, solo la forza sua e di una band strepitosa? Io non credo. Vedere Springsteen dal vivo è una cosa che va fatta, almeno una volta nella vita, finché si può, non ci sono santi. E’ come vedere la Cappella Sistina, o qualunque altra cosa reputiate tanto bella da levarvi il fiato. E’ pura arte, è pura poesia. Perché è questo che dovrebbe fare un grande artista: condensare tutto il bello (e non solo) che c’è nel mondo e buttarlo in faccia al pubblico con tutta la foga, la voglia, la passione, la rabbia, il divertimento, l’ardore, l’amore. Attraverso il suo mestiere e facendo sentire la sua voce. Ed è questo che Springsteen fa, senza riserve, senza arretrare davanti a niente, senza risparmiarsi.
E’ un martello pneumatico, è un animale, è un portento della natura. L’affiatamento con la band è totale e in molti momenti sono una cosa sola. Il vuoto incolmabile lasciato da Big Man Clarence Clemons è stato egregiamente tamponato da un’intera sezione fiati, nelle cui fila suona anche Jack Clemons, nipote di Clarence. Little Steven è una sicurezza, così come il batterista, Max Weinberg, che sembra un contabile ma pesta come se non ci fosse un domani! Springsteen sul palco è indescrivibile, nessuna parola rende la sua gamma espressiva, dalla faccia al resto del corpo, né renderebbe giustizia al suo carisma, alla sua capacità di trascinare ognuno dei 60.000 spettatori (non solo sul prato, anche sugli spalti nessuno si è praticamente mai seduto). Si è visto uno Springsteen duro, arrabbiato, poetico, lirico, intimo (nei falsetti come con l’armonica e soprattutto nel momento al pianoforte), comico (impagabili le sue facce alla Stanlio, la gestualità di quando si diverte a fare il buffone, a giocare con chi è sotto il palco, armeggiando con pupazzi gonfiabili con appiccicata la sua foto o con un salvagente come un bambino al mare), serio, buffo, sexy, commosso (dopo l’assolo di armonica su The River, e se uno dopo tutti gli anni di carriera e le esperienze fatte, ancora si commuove suonando vuol dire che è veramente un grande).
E mi fermo, perché la lista sarebbe infinita. Molti i momenti memorabili, come quando ha fatto cantare due bambini sulle note di Waitin’ on a Sunny Day (e ha scritto benissimo un fan su Twitter: “tutti possono prendere bambini dal pubblico. Ma Springsteen dice – canta, canta! – E loro cantano. Ecco perché uno è Boss”) o quando ha omaggiato con un minuto di silenzio, accompagnato da una sfilata di bellissime fotografie sul maxischermo, l’amico Clarence, durante Tenth Avenue Freeze Out.
E veniamo alla scaletta, che definire ottima e abbondante è persino riduttivo.
Sfilano oltre una trentina di brani e – non può essere altrimenti – c’è spazio per tutti i capolavori, dai grandi classici ai pezzi dell’ultimo ispirato e riuscito album.
Da We Take Care of Our Own e Wrecking Ball con le quali inizia la serata, passando per Badlands, Death to my Hometown, la sempre struggente My City of Ruins e la poderosa The Rising; Jack of all Trades, introdotta in italiano (lo farà diverse volte nel corso della serata): “I tempi sono stati molti duri. La gente ha perso il lavoro e la casa. So che anche qui è stato durissimo e i recenti terremoti hanno contribuito… Questa è una canzone per tutti quelli che stanno lottando”. E ancora, avanti e indietro nel tempo, con The E Street Shuffle, Johnny 99, Shackled and Drawn, tra le migliori del nuovo album per chi scrive, The Promise, Radio Nowhere, We are Alive, Land of Hope and Dreams.
Tra i bis (dieci) Rocky Ground, classici quali Born in the Usa, Born to Run, Hungry Heart, Dancing in the Dark e finale affidato a sorpresa – perché sembrava fossero tutti lì schierati a prendersi gli ultimi applausi e invece no – a Glory Days e Twist and Shout nella sua ormai nota versione.
Sul sito ufficiale sono riportati tutti e 33 i brani della serata e la dicitura ufficiale, con 3 ore e 40 minuti, di secondo concerto più lungo mai fatto, dopo quello del capodanno 1980 a Uniondale, NY.
Chi c’è stato sa di aver assistito e contribuito a qualcosa di unico.
Per tutti gli altri non resta che sperare in un eventuale futuro dvd, che testimoni per sempre una serata di così grande e potente magia rock.
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