di Fabio Migneco
Ammettiamolo: fosse un Manuale d’Amore di Veronesi o affini, la stroncatura sarebbe puntuale e impietosa. Però essendo un film di Woody Allen e non essendo Allen – sia pure in versione ottuagenaria – Veronesi o affini, si tende ad essere maggiormente benevoli.
Senz’altro è un Allen minore, forse anche un gradino sotto i suoi film minori, che confeziona un’operina leggera leggera tanto per non perdere il ritmo di un film all’anno, pescando dal suo celebre cassetto pieno di soggetti, spunti e idee quattro episodi così così da ambientare nella Città Eterna. Se non altro quanto a stereotipi e a punti di vista americani sulla nostra realtà almeno si va un pelo meglio rispetto a prodotti alla Mangia, prega, ama e via dicendo. C’è di buono che l’Allen scrittore, anche quando è sottotono, possiede una limpidezza e una capacità di arrivare al punto con pochi tocchi che fa invidia ancora oggi.
L’episodio con Benigni è un divertente e divertito ritrattino sulla fama dei tempi moderni, effimera e immotivata, che investe gente senza vere qualità e come arriva prima o poi va via. Gli altri, alternati al montaggio, sono le ennesime variazioni sui temi che lo ossessionano da anni, serviti più o meno bene da un gruppetto di nomi americani (su tutti Ellen Page, Eisenberg e Alec Baldwin) e, stavolta, soprattutto italiani.
Il gioco del film è anche questo, riconoscere tutti gli attori del nostro cinema e della nostra tv (o di entrambe le cose, come nel caso di Tiberi, che da Boris ad Allen non sfigura, nemmeno accanto a una Penelope Cruz in versione bomba sexy) che sfilano man mano, nelle circa due ore di visione, talvolta anche solo per pochi secondi. Al tempo stesso però, per gli spettatori italiani, è un limite, perché distrae fin troppo dall’insieme (se fosse stato un cast totalmente americano o inglese non si sarebbe posto il problema, come spesso è accaduto con Allen, tre esempi tra i tanti Melinda e Melinda, Tutti dicono I Love You o Celebrity).
Però conforta vedere che alcune idee trovano finalmente la loro realizzazione (quella del cantare sotto la doccia ad esempio, da una sua vecchia battuta riciclata in moltissime interviste, specie in veste di clarinettista) e fa piacere ritrovare Allen anche di fronte alla macchina da presa, sia pure per poco (e con un nuovo doppiatore, Leo Gullotta, che riesce più che egregiamente nella non facile impresa di rimpiazzare Oreste Lionello). Ma l’indulgenza nel trovarsi a giudicarlo deriva dal fatto che solo pochi mesi fa Midnight in Paris ci aveva deliziato. Allen è così, e d’altronde è impossibile infilare solo ottimi film uno appresso all’altro tenendo il ritmo che tiene lui da quarant’anni!
Prendiamolo come un innocuo divertissement, confidando nel fatto che qualche altra perla ce la regalerà ancora, pescando dal cassetto qualcuna delle sue impagabili idee geniali.
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